mercoledì 16 aprile 2014

Digital Love - 26 aprile 2014


DIGITAL LOVE: Musica, Arte, Immagini nell’Era dell’Amore Digitale

Ingresso dalle ore 00:00

Open Act Live Nadia Casari aka Keilan

A seguire

DJ SET

Anthony Ray

Daniele Rosati

Quore

Valerio Panfili

SPECIAL GUEST

Digital Boys (Ballerini)

Elektro Women (Ragazze Immagine)

Milla Make Up (Body Paint e Trucco per i partecipanti)

Durante la serata verrà inoltre proiettato in ANTEPRIMA il Videoclip del Remix di RAIN, brano trance progressive composto nel 1998 dal duo italiano Brainbug conosciuto a livello internazionale, scritto e interpretato da Nadia Casari, allora lead vocalist del progetto.
Il Videoclip del nuovo brano prodotto e arrangiato da Luciano Madon, è stato coprodotto dalla D.F.P., diretto da Giovanni Giacobelli e Stefano Ricco, interpretato, tra l’altro, da alcuni ragazzi di Villavallelonga e girato nella faggeta di Vallone Tasseto nell’Ottobre 2013.

La D.F.P. si riserva il diritto di selezione all’ingresso.

Info Line: 329 3996534

domenica 13 aprile 2014

2070 battute: Storia di Villavallelonga (2)

Racconto estratto dal libro di Leucio Palozzi “Storia di Villavallelonga” del 1982.
Il racconto ricostruisce il terremoto del 1915 dal punto di vista della cronaca nazionale, ponendo l'accento sul senso di collaborazione e solidarietà della popolazione di Villavallelonga.

Il libro è disponibile al prestito, alla consultazione e alla vendita presso la Biblioteca Comunale.

Il terremoto marsicano del 1915

Alle ore 7,55 di mercoledì 13 gennaio dell’anno 1915 alcune scosse sismiche, durate circa 20 secondi, ferirono gravemente la terra marsicana. Il territorio in pochi attimi fu devastato, le opere in gran parte distrutte, la vita di molti abitanti cessò e, seppure con il freddo intenso, le strade furono in breve affollatissime sbugiardando l’espressione rivolta al poltrone: <<Manghe i tarramute te smòve>>. L’epicentro si registrò nel bacino del Fucino e ciò fece riemergere le polemiche sul prosciugamento del lago; ad Avezzano si ebbe la maggiore rovina, mentre i Centri circonfucensi subirono più o meno danni, a causa della differente costituzione litologica del sito topografico dove sorgevano gli abitati.

I giornali dell’epoca hanno pubblicato molte cronache con dovizia di particolari e di una di queste pagine risulta una drammatica e significativa testimonianza. Alle ore 9 del 18 gennaio l’inviato speciale del periodico La Tribuna mosse da Avezzano lungo una via fiancheggiata da cadaveri e si fermò nei pressi di un gruppo di persone fra le quali riconobbe l’onorevole Sipari che stava ascoltando un giovane taciturno e malinconico. Il profugo raccontava la sua esperienza: <<Io sono vivo per miracolo. Del mio paese non è rimasta in piedi una casa. Il terrore e l’angoscia la non ha limiti>>. Dopo queste parole l’onorevole chiese: <<Quale paese?>>. E il giovane rispose ancora: <<Villavallelonga. Il paese estremo di queste montagne marsicane, oltre Luco, oltre Trasacco, oltre Collelongo. Io non so come sono vivo e come abbia potuto salvarmi con mia madre. C’è cascata addosso la volta di tre piani>>.

La commozione fu tale che i presenti decisero di andare a Villavallelonga e le automobili affondarono <<in un viottolo sfasciato trabalzando nel fango>>. L’inviato riferisce altre notizie del suo pellegrinaggio e poi descrive l’arrivo a Villavallelonga: <<Proseguiamo per questo estremo paese della Marsica a mille metri di altitudine. Lasciamo a destra il paese di Collelongo che visiteremo al ritorno. L’automobile percorre una via che si svolge su per i contrafforti dell’Appennino. Ecco la chiesuola di campagna di San Leucio, protettore di Villavallelonga. Uno squarcio enorme è visibile a distanza: dentro anche il Santo è caduto frantumandosi. All’entrata del paesello con 2 mila abitanti, vediamo il Palazzo comunale gravemente lesionato e il garage di una Società automobilistica, il cui tetto è crollato. Ci sono circa 70 morti e 200 feriti, alcuni dei più gravi sono stati portati a Roma, altri sono in traballanti baracche costruite con tavole tolte alle rovine. Tra i morti sono contadini e negozianti. Ho notato questi nomi: Coccia Carmine, Angelo Serafini, Natale e Pasqua Tantalo, Antonio Serafini, Tantalo Nicola. Più di venti cadaveri sono ancora tra i rottami. La popolazione ha dato prova di rara disciplina. Essa ha subito provveduto da se a scavare le macerie. Anche a  Villavallelonga la strage delle case è totale. All’interno è tutta una maceria e le provviste di grano e di patate sono rimaste sepolte. Tutte le chiese sono crollate. Ho veduto la chiesa parrocchiale: il tetto è sprofondato e le mura esterne si reggono per un miracolo di equilibrio. In questo tempo cinque minuti prima che il terremoto travolgesse questa plaga di Abruzzo era raccolta tutta la popolazione perché si celebravano le funzioni per il matrimonio di due ricchi paesani. Il corteo era uscito sulla piazzetta quando è avvenuto il grande crollo. Cinque o sei vecchiette che si erano indugiate nella chiesuola sono rimaste sotto i cumuli e non fu possibile il salvataggio se non per due di esse. Una ventina di popolani si sono salvati per miracolo>>.

Dopo la descrizione della situazione trovata, il cronista ritiene doveroso soffermarsi sull’abnegazione manifestata dai cittadini: <<Questo paese merita di essere segnalato. L’iniziativa privata ha qui avuto benefica ed esemplare affermazione e se in tutti gli altri luoghi colpiti si fosse rivelata una tale virtù nelle popolazioni, l’opera dello Stato avrebbe trovato terreno infinitamente più atto allo sviluppo della sua opera di soccorso. Il Sindaco, Angelo Ferrari, e il dott. Di Ponzio, sono due individui che è doveroso indicare quale esempio a quanti altri si trovarono nelle loro condizioni. Essi hanno fermato le reclute che dovevano partire, militarizzandole per gli scavi, hanno requisito le poche derrate trovate in fondo alle rovine. Hanno improvvisato delle cucine economiche, hanno distribuito con buoni del Sindaco razioni ai cittadini, ed ora anche per consiglio dell’egregio ing. Petrilli e dell’on. Sipari tentano di riattivare il mulino e le comunicazioni automobilistiche con Avezzano. Tutto questo è avvenuto per virtù di popolo e disciplina di amministrati e amministratori. Così fu possibile ai cittadini di Villavallelonga salvare oltre un centinaio di persone, con un lavoro audacissimo e ordinato; e così fu loro possibile organizzare i primi servizi urgenti di sussistenza e assistenza per non far morire di freddo e di fame gli scampati. Debbo però subito avvertire che questo confortante fenomeno di solidarietà cittadina – tanto più confortante quanto più grave è la strage – non ho potuto ammirare in altri luoghi>>.

Una pagina di cronaca che oggi è storia e testimonia la situazione dei profughi di questo estremo e isolato  Centro della Marsica che dopo cinque giorni dal terremoto aveva fatto appello alle sue sole forze, ma le condizioni si aggravarono ancora; infatti il 20 gennaio una bufera di neve infuriò nella Marsica e il 22 fu pubblicato un appello di Collelongo dove si narrava che a dieci giorni dal terremoto non avevano ricevuto alcun soccorso.

Le testimonianze dei cronisti, però, debbono essere integrate con la lettura dei dati che a Villavallelonga sono attestati nei libri parrocchiali. Le vittime registrate il giorno del terremoto (13 gennaio) furono 46, di cui 16 al di sotto dei 25 anni, 9 tra i 25 e 50 anni e 21 con oltre 50 anni. Nei due mesi successivi la triste sorte fu seguita da altre 20 persone, di cui 17 tra i 64 e i 91 anni; nel restante periodo dell’anno si ebbero altri 30 decessi per complessivi 96 morti; tuttavia seppure il 13 gennaio può essere annoverato come il giorno più luttuoso, non altrettanto si può dire per l’anno 1915 che non fa registrare l’infausto primato.

La popolazione fu colpita nella vita e nelle opere, nei ricordi del passato e nei segni monumentali della sua esistenza. La chiesa secolare, prima sede della parrocchia edificata sotto il titolo originario di S. Nicola, fu rasa al suolo e la chiesa della Madonna delle Grazie, preziosa testimonianza dell’influenza benedettina, già intitolata a S. Bartolomeo, fu gravemente danneggiata al pari della chiesa di S. Leucio. L’esercizio del culto fu assicurato celebrando le funzioni liturgiche in una baracca di legno appositamente costruita in Largo Crocicchia, nei cui pressi si trovavano anche le prime capanne di ricovero per i terremotati. Dalla relazione degli ingegneri che il 31 gennaio visitarono il paese, risulta che il 30% degli edifici fu dichiarato abitabile, mentre il 50% fu mediamente leso e il restante 20% si trovo distrutto; dal documento risulta ancora che le case senza bisogno di lavoro erano 150 e che il mulino era riattivabile.

La gran parte delle case distrutte si trovava arroccata intorno alla Chiesa parrocchiale e con queste distruzioni e successive ricostruzioni molte caratteristiche della Rocca di Cerro medioevale sono state cancellate, anche se negli ultimi tempi alcuni indizi sono stati ricondotti alla luce e sul posto è possibile ricostruire alcuni profili ambientali e testimonianze di vita.

Il comitato dei Lavori Pubblici ha a suo tempo ritenuto che il fattore edilizio fosse quello che aveva maggiormente influito nel cedimento o nella resistenza di fronte alla scossa, anche se si doveva riconoscere una debita parte della struttura geologica e della conformazione topografica del suolo sul quale sorgevano le abitazioni. Per la ricostruzione delle case furono concessi alcuni mutui che, soltanto in epoca successiva, vennero trasformati in contributi; tuttavia le complesse procedure non permisero a molti di usufruirne, anche se a tale scopo molti edifici furono inevitabilmente distrutti e non mancò l’indignazione per lo sfruttamento della grande sventura nazionale.

Dalle primitive baracche di legno gli abitanti furono sistemati in altre provvisorie costruzioni di laterizio che hanno condotto in locazione; la successiva mancanza di interventi definitivi ha indotto gli abitanti a richiederne l’acquisto in modo da provvedere alle necessarie ristrutturazioni, facendo cessare la lunga emergenza.


martedì 1 aprile 2014

Digital Love - 26 aprile 2014


Dopo tre lunghissimi anni dallo strepitoso e chiacchierato Friendly Dance Party “Love is Love”, la D.F.P. è lieta di presentare, in occasione del ventennale, “Digital Love”, un remake evolutivo del progetto “Technological Love” organizzato nel lontano 24 aprile 2008.

L'era del digitale, del post-moderno come indiscussa protagonista del tema di questo Party.
I ritmi frenetici, la troppa materialità e la poca spiritualità, la perdita di valori fondamentali, l'estinzione del gusto della semplicità, del naturale e del bello porteranno a chiederci: Chi siamo? Dove stiamo andando?
Con il passare degli anni e con la continua innovazione tecnologica riusciranno a farci diventare robot, ma soprattutto non esisteranno più l'irrazionale e i sentimenti.
L’amore e le emozioni saranno vissute sempre più via cavo…
Nel 2070 saremo ciò che decideranno per noi...Chi deciderà? La Technologia.

Allieteranno la serata vari DJs e tanti ospiti provenienti da galassie lontanissime, discesi appositamente sulla Terra per rinnovare l’appuntamento con il nostro dance floor digitale.
Nel frattempo vi invitiamo ad inizializzare il sistema operativo per prepararvi alla digitalizzazione!


La D.F.P. si riserva il diritto di selezione all’ingresso.


giovedì 27 marzo 2014

Visita alla Mostra di Mogliani, Soutine e gli Artisti maledetti, Palazzo Cipolla, Roma

L'Associazione D.F.P. organizza, per i partecipanti al Corso di Disegno, Pittura e Incisione, la seconda Visita guidata alla Mostra di Modigliani, Soutine e gli Artisti maledetti il prossimo 30 marzo 2014.

L'organizzazione di visite guidate alle varie Mostre di Pittura e d'Arte costituisce un'importante occasione formativa per gli allievi del Corso, finalizzato all'insegnamento e alla conoscenza delle diverse tecniche pittoriche e della Storia dell'Arte in generale.
Ricordiamo a tutti gli interessati che è possibile iscriversi al Corso di Disegno, Pittura e Incisione presso la Biblioteca Comunale di Villavallelonga il sabato e la domenica dalle ore 15:00.
Presso la struttura è possibile iscriversi inoltre ai Corsi di Inglese (Conversation Club) e Yoga.

domenica 16 marzo 2014

Life Arctos - Sanità animale e orso bruno marsicano


Incontro informativo pubblico che si terrà a Villavallelonga (AQ) il 27 marzo alle ore 18:30 rivolto agli allevatori, cacciatori, tartufari, veterinari, associazioni di categoria e cittadini residenti nei Comuni della Vallelonga (Villavallelonga, Collelongo e Trasacco) per l'illustrazione delle azioni di tutela e conservazione dell'orso bruno marsicano nell'ambito del Progetto Europeo "Life Arctos" e per la successiva fornitura gratuita delle vaccinazioni per cani contro il cimurro.

martedì 4 marzo 2014

2070 battute: Storia di Villavallelonga (1)

Racconto estratto dal libro di Leucio Palozzi “Storia di Villavallelonga” del 1982.
Il testo ripercorre le origini medioevali del Paese per arrivare fino ai primi anni '80, ricordando le figure illustri e descrivendo aspetti storici, culturali e scientifici del territorio.

Il libro è disponibile al prestito, alla consultazione e alla vendita presso la Biblioteca Comunale.

Dalla Riserva di Caccia Reale al PNA

La parte sud-orientale della Vallelonga, occupata dal Comune di Villavallelonga, si insinua, a giusta di cuneo, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo. In tale territorio si trovano numerosi itinerari naturalistici non contaminati da insediamenti artificiali, ne disturbati dal transito veicolare.
L’esistenza del Parco è oggi una realtà che merita di essere conosciuta nei suoi presupposti storici, in modo da porre in luce il ruolo della popolazione locale che ha vissuto in un naturale isolamento, favorito dalla condizione feudale  fino al 1806, dalla barriera lacustre del Fucino fino al 1875 e dalla chiostra dei monti che si susseguono a corona lungo le due convergenti catene della Vallelonga. Quest’area, qualificatasi negli ultimi tempi per il preminente valore naturalistico, consente di verificare la peculiare evoluzione dei criteri di riferimento dell’uomo col suo ambiente ed il cambiamento delle condizioni di vita e lavoro, degli usi e dei costumi tradizionali, che seguono alle esperienze protezioniste condotte nel secolo scorso e in quello attuale.
Fuori dal sistema feudale la Marsica è stata interessata dal prosciugamento del Lago di Fucino e dalla costruzione delle strade obbligatorie che hanno facilitato la conoscenza di questo territorio. Un bel documento epigrafo del 1856 costituisce la pietra miliare che riconosce il valore naturalistico del territorio di Villavallelonga. La piccola pietra, trovata nel centro storico, è ancora collocata sopra il portale n. 32 di Via Colle Quaresima e dice così: << AD HUNC COLLIS QUADRIGESIMALIS BALSAMINUM Aer ReSPIRANDUM ACCeSI M.G.B. A.D. 1856>>. Il messaggio esprime i seguente significato: Sono venuto a respirare quest’aria balsamica di Colle Quaresima.
Il primo personaggio illustre che in epoca moderna ha valorizzato le montagne del Parco è Vittorio Emanuele II, ultimo Re di Sardegna e primo Re d’Italia, denominato Re galantuomo e padre della patria. Da buon cacciatore il Sovrano era attento alla descrizione delle risorse dell’alta Marsica ed in particolare degli estesissimi e secolari boschi che nascondevano una copiosa selvaggina, peraltro poco insidiata dai cacciatori locali, a causa delle armi ancora assai rudimentali da questi possedute. La ricchezza della fauna si esprime in molti toponimi della Vallelonga: agli orsi rimanda il Coppo dell’Orso, ai cervi conduce la Valle Cervara, ai gattopardi (o lince da pardus) fa pensare il rotondeggiante Colle Pardo. Inoltre il torrente Carnello, oggi fossato di Rosa, doveva essere così chiamato perché traeva alimento dalle acque displuviali e sorgenti che segnavano zone ricche di selvaggina.
Nel 1872 il sovrano d’Italia aveva finalmente deciso di cacciare l’orso nelle montagne marsicane e i consigli comunali (Castellafiume, Balsorano, Collelongo, Villavallelonga, Lecce, Gioia, Pescasseroli, Opi) si affrettarono a deliberare, nella sessione di ottobre, di riservare la caccia grossa al Re galantuomo e così fu istituita la Riserva di Caccia a Vittorio Emanuele II. I programmi di caccia prevedevano anche feste e musiche e l’itinerario più suggestivo veniva indicato nella traversata in mulattiera da Balsorano a Collelongo e da Villavallelonga a Pescasseroli.
Dopo il 1878, il successivo Re Umberto I non si mostrò interessato al mantenimento della riserva e la soppresse; ma, nel 1900, Vittorio Emanuele III, nuovo sovrano d’Italia, ripristinò la Riserva Reale e, nell’autunno del 1907, fu  invitato a cacciare l’orso nel territorio di Villavallelonga. La popolazione aveva preparato grandi accoglienze e i cacciatori del luogo con le guardie rege avevano predisposto un dettagliato programma di caccia. La zona della battuta era stata individuata nel Vallone Martino, dove il Re si appostò dopo aver lasciato alla fonte Tricaglie la propria vettura a motore (la prima giunta in Paese) e dopo essersi inoltrato nella boscaglia con cavalli e guide. La battuta per lo scaccio dell’orso non tardò a convogliare un bellissimo esemplare nell’area di osservazione del Re, ma  il sovrano rinunciò a colpirlo ed  impedì che altri potessero farlo.
La visita di Vittorio Emanuele III non mancò di soddisfare alcune richieste della popolazione locale, come il risarcimento dei danni causati al bestiame e l’interessamento perché il postale giungesse fino a Villavallelonga. Però, con il passare degli anni, le spese per i danni crebbero copiosamente e nel 1912, la Casa Reale rinunciò alla riserva, limitando, con un decreto dell’anno successivo, la sola caccia al camoscio.
La soppressione della Riserva di Caccia non poteva che comportare, in mancanza del rimborso danni, la necessità per i naturali del luogo di ridurre il numero degli animali ritenuti responsabili del danneggiamento, con l’ovvia conseguenza di assottigliarsi inevitabile di tutta la fauna locale. Dalla statistica degli esemplari uccisi o catturati nel secolo che precede l’istituzione dell’Ente Parco è possibile cogliere il verificarsi di questo fenomeno.
Dal 1921, con la costituzione dell’Associazione Pro Montibus e, successivamente, con l’istituzione dell’Ente Autonomo del Parco Nazionale d’Abruzzo e del Consorzio per la Condotta Forestale Marsicana, fu possibile avviare un diverso protezionismo e si ebbe << una novella prova delle buone disposizioni delle popolazioni del Parco, le quali, con assoluta fiducia, hanno rimesso, in tal modo, la tutela dei loro maggiori interessi nelle mani dei dirigenti dell’ente autonomo>> del P.N.A..
I cittadini di Villavallelonga avevano molta fiducia che il Parco potesse concorrere a promuovere le iniziative turistiche e lo sviluppo economico del luogo; risulta, infatti, che il Sindaco, nel 1925, aveva comunicato all’Ente Parco il desiderio di alcuni cittadini di investire i propri diritti, in forma di contributo, per la costituzione di un albergo, impiegando nell’opera lire 300.000, ma la disponibilità manifestata non determinò il fattivo impegno dell’Ente.
Negli anni successivi i naturali del luogo sono stati più volte rimproverati per l’eccessivo commercio della legna, che tuttavia era colpito dalla tassa comunale di esportazione, e così anche per la cattiva abitudine di tagliare alberi a m. 1,50 dal suolo che comporta la perdita di molto materiale. I Villavallelonghesi negli anni venti esportavano ogni anno circa 2.500 metri cubi di legname ed altrettanti sostituivano il consumo locale, per cui, se da un calcolo approssimativo il bosco non poteva fornire più di 5.000 metri cubi (circa 40.000 quintali) senza intaccare il suo capillare boschivo cioè senza tagliare più di quanto il bosco era in grado di produrre, non pare che allora si siano verificati eccessivi abusi. Gli accusatori volevano tutelare le foreste <<dall’ingordigia smodata delle popolazioni e tener fronte a tutte le deviazioni facili a sorgere nelle menti di gente ingenua ed abituata a considerare il bosco come suo>>.
L’obiettivo di tutela che si pretese di assumere da parte di tali accusatori non conseguì molti apprezzabili risultati, giacché veniva formulato da posizione ingrata e ingenerosa nei riguardi dei naturali del luogo. E’ sufficiente il riferimento ai documenti feudali per rintracciare le plurisecolari privazioni di questa gente che tutto ha potuto dire men che qualcosa fosse stato suo o affermare il suo diritto agli usi civici, mentre ha dovuto condurre una quotidiana lotta per la sopravvivenza, che era dettata dalle necessità esistenziali e non dall’ingenuità delle menti. Piuttosto le ditte forestiere, queste si ingorde, hanno avviato quella che Loreto Grande chiamò la strage degli alberi innocenti.
L’Ente Parco, dopo essere stato soppresso nel 1933, per il passaggio della gestione delle montagne all’azienda di Stato per le foreste demaniali, fu di nuovo istituito il 21 ottobre 1950. A differenza della prima istituzione, che mirava alla difesa della locale sottospecie endemica del Camoscio d’Abruzzo (Rupicapra ornata) e dell’Orso Marsicano (Ursus arctos marsicanus), nella legge che ricostituiva l’Ente Parco venivano indicate finalità non solo di tutela, ma anche di potenziamento della fauna e della flora e di conservazione delle speciali formazioni geologiche e delle bellezze paesaggistiche.
Dalle esperienze di caccia, condotte nel quadro della istituita Riserva Reale, si è pervenuti all’esigenza di proteggere la fauna e la flora della Marsica orientale con l’intervento di associazioni e enti, realizzando il significativo passaggio da interessi feudali e venatori ad impostazioni e progetti naturalistici per interventi razionali e sistematici. Per la verità non sempre è stato possibile osservare la razionale programmazione ed il coordinamento degli interventi. Gli scandali urbanistici in prossimità degli abitati di Pescasseroli, Civitella Alfedena e Villetta Barrea sono in contrasto con tale esigenza, mentre gli squilibri realizzati fra i Comuni del Parco con Centri attrezzati e ricettivi rispetto alle notevoli carenze ed insufficienze dei Comuni più decentrati sono incompatibili con l’equa ripartizione dei servizi e delle iniziative.
L’obiettivo di assicurare la fruizione collettiva della ricchezza biologica non può non essere coniugata con l’appoggio delle genti che in loco risiedono e operano, in modo che l’imposizione dei vari vincoli comporti il risarcimento dei danni subiti e non risulti generica, rigida o fittizia nell’indicazione delle opportunità di lavoro, ma sviluppi forme cooperativistiche e modalità di gestione dei servizi che tutelino l’uomo nel suo ambiente e col suo ambiente, cioè l’uomo integrale nelle sue concrete condizioni ambientali.
In tema di presenze deve essere registrata la prima iniziativa, piuttosto discutibile, realizzata a Villavallelonga con il festival musicale-ecologico patrocinato dall’Ente Parco con l’adesione del W.W.F. (Fondo mondiale per la natura), della Lega per l’energia alternativa, della Lega naturista, del Gruppo dimensione e natura dell’Associazione Amici del Parco.  La manifestazione, denominata l’orso nel sacco a pelo con la chitarra, si è svolta sui Prati d’Angro dal 27 al 31 luglio del 1977. Il programma prevedeva dibattici politici-ecologici e musiche che hanno richiamato quasi diecimila giovani provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. L’esplosione dei servizi, di fatto inesistenti, e la natura dell’iniziativa, autogestita, ma non dai locali, hanno evidenziato le carenze più notevoli ed hanno riproposto la necessità di pervenire alla individuazione delle finalità turistiche in relazione alle concrete possibilità ricettive dei servizi in funzione.
Al di là delle incongruenze riscontrate in tale circostanza, sembra acquisito e significativo il ruolo giocato dalle popolazioni del Parco nell’interpretare il passaggio dalla Riserva di Caccia alle esperienze naturalistiche del Parco Nazionale de Abruzzo. I criteri di riferimento per un corretto rapporto tra l’uomo ed il suo ambiente di vita sono andati via via evolvendosi; in questa area, qualificatasi per il preminente valore naturalistico, si deve ora verificare sia la rinascita dei territori montani, sia il progresso economico, sociale e culturale delle comunità locali.

Pietra posta in località Colle Quaresima attestante la salubrità dell'aria di Villavallelonga
Ritratto di Re Vittorio Emanuele II di Savoia, di Tranquillo Cremona

Manifesto dell'evento "L'orso, nel sacco a pelo, con la chitarra"

giovedì 30 gennaio 2014

Comunicato stampa n. 2/2014

Villavallelonga (AQ), 30 gennaio 2014 - In occasione della Celebrazione del Ventennale di quello che oggi è diventata l’Associazione di Promozione Sociale D.F.P., saranno organizzate, nel corso del corrente anno, attività e progetti speciali (mostre, proiezioni, convegni, dibattiti, pubblicazioni, party, tributi ed eventi commemorativi) al fine di ripercorrere e rivivere i vari momenti artistici, culturali, musicali, fotografici, promozionali, ambientali e sociali che hanno contraddistinto l’attività associativa, il cambiamento e l’evoluzione della stessa e dell’intero contesto generale di riferimento, omaggiando, infine, i tanti Personaggi e Artisti che, nel frattempo, hanno ispirato il nostro personale linguaggio creativo.

…Dal 1994 al 2014, da due a 15 soci fondatori (circa), dalla cameretta alle pubbliche piazze passando per Philadelphia, dal 412732 allo smartphone, dalle musicassette ai files mp3, da Gioca e suona con Cristina alla play station, da Non è la Rai al Grande Fratello, dall’insostenibilità del debito pubblico e dei sistemi pensionistici nazionali alla crisi finanziaria internazionale, dalla lira all’€uro, dalla firma del Protocollo di Kyoto alle terre italiane avvelenate, dalle foto virtuali alle pellicole cinematografiche e ai Videoclip, dai copy book al blog, dal monopolio delle scene alle spicciole clonazioni…

Gli eventi organizzati permetteranno, inoltre, a chi non ci conosce, di avvicinarsi alle nostre finalità statutarie e, in generale, al mondo del volontariato.

Nel corso dell’anno, inoltre, l’Associazione effettuerà una valutazione delle attività, dei progetti e degli eventi organizzati sul territorio ai quali parteciperà a vario titolo, tramite il rilascio e la pubblicazione di un apposito rating etico.

Infine, per celebrare il grande compleanno, abbiamo effettuato un remix del logo che, concepito, alla fine degli anni ’90, ha già subito nel frattempo (parallelamente alla frenetica evoluzione tecnologica) alcune piccole modifiche, unitamente ad una serie inedita di simboli distintivi dei diversi campi di attività, ideati appositamente per la ricorrenza.

I nuovi loghi saranno inseriti nelle varie Locandine e Manifesti che faranno da cornice alle tante attività ed eventi commemorativi che saranno organizzati nel corso dell’anno e che saranno di volta in volta comunicati.

Per segnalarci eventi ed attività alle quali avete partecipato e che vi piacerebbe, magari, rivivere, oppure per proporre nuovi progetti ed idee creative potete contattare l’Associazione e contribuire in questo modo a strutturare la programmazione annuale.

Da ultimo, vi salutiamo con uno dei nostri slogan preferiti: “Per chi ha sempre avuto le idee chiare il programma di qualità è uno solo!”.


Lo Staff

Remix 2014 del logo

mercoledì 22 gennaio 2014

2070 battute: Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo

Racconto estratto dal libro di Leucio Coccia “Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo” – Pescasseroli, 1980. Il testo consiste in una raccolta di racconti pubblicati negli anni '50-'60 sulla famosissima rivista venatoria Diana, con la quale l'autore collaborava.

Il libro è disponibile al prestito e alla consultazione presso la Biblioteca Comunale.

Una seconda cattura di orsacchiotti

La cattura

Erano le 11 circa del 26 aprile scorso allorquando certo Antonio Bianchi da Villavallelonga, che nel bosco “Aceretta” trascinava a valle sulla neve un tronco di faggio, intravide, a non più di venti passi da lui, qualche cosa fra le piante che scompariva rapidamente dietro una bassa roccia. Spinto dalla curiosità, volse i suoi passi alla volta del punto dell’apparizione nella speranza di poter accertare qualcosa mediante la lettura delle eventuali impronte lasciate sulla neve. Giunto presso la roccia scoprì che sotto di essa si apriva un buco angusto e buio il cui fondo scendeva in senso leggermente obliquo, e che sulla neve vicina vi erano soltanto delle ormi somiglianti a quelle di piedini umani di neonato.

A tal vista il Bianchi chiamò alcuni suoi colleghi che si trovavano nei paraggi e, fatto loro osservare quanto da lui scoperto, con l’ausilio di essi, in numero di quattro, credette di potersi dare subito all’opera di cattura. Ma vi dovette, in un primo momento, rinunciare dato che, mentre infilava carponi l’angusto pertugio, l’incauto, e più che tale incosciente, ne venne bruscamente respinto da un minaccioso e più che mai cavernoso ringhio da fare arricciare i capelli a tutti i presenti e farli sbaragliare; segno eloquente che la caverna era abitata da una famiglia di orsi, madre e figli, poiché il maschio è completamente disinteressato all’educazione della prole.

Visto, però, che nessun essere vivente venne fuori dalla tana, la squadra dei catturatori, riavutasi dallo spavento e riacquistato il necessario sangue freddo, per provocare l’uscita della madre dal covile, ricorse al mezzo più sbrigativo e a portata di mano: adunò del frascame presso la caverna, vi appiccò il fuoco e, una volta bene acceso, ve lo spinse dentro. A questo punto l’orsa madre perse la calma e, fatto appello a tutto il suo coraggio per difendere la prole, si lanciò all’aperto come un bolide spargendo intorno a se legni accesi e terrore, minacciando paurosamente i violatori del suo domicilio, che fecero appena in tempo a schivare l’assalto; e non sarebbe andata liscia per essi se l’orsa, abbagliata dal fuoco e dall’improvvisa luce solare aumentata dal candore della neve, non fosse stata improvvisamente attaccata alle spalle da due robusti cani da pastore, incoraggiati dalla presenza del padrone e di tutti gli altri, e non fossero ricorse, come dirò in seguito, delle importantissime circostanze.

L’assalto dei cani e le grida di terrore emesse da tutti i presenti non sarebbero bastati a far allontanare il selvatico adulto dalla tana per compiervi la cattura dei piccoli, per cui, come gli stessi esecutori della temeraria impresa ammisero, essi debbono la loro salvezza non solo all’intervento dei cani ma principalmente allo stato di abbattimento in cui l’orsa versava e che solo in minima parte può attribuirsi alla mancanza del cibo per l’abbondante quantità di neve che ancora ricopriva la zona, o all’aver ceduto parte del suo vigore al nutrimento dei figli, ma la vera causa del fisico abbattimento dell’orsa va ricercata in una qualche malattia che da tempo doveva martoriarla. Inoltre non va esclusa, anzi va accolta con considerazione, l’ipotesi che il selvatico, all’improvvisa vista, della gente presso il suo rifugio, se ne sia allontanato per attirare su di se l’attenzione del nemico, e solo per ultima quella che il selvatico sia fuggito per mettere in salvo la propria pelle.

Percorso un centinaio di metri in discesa, affondando nella molle neve primaverile, l’orsa, sempre inseguita dai cani e da tre uomini, armatisi di tizzoni accesi, tentò un ritorno ma il caso volle che ciò avvenisse proprio dove una lunga stipa di frascame, aggrovigliato e ricoperto di neve, aveva formato una specie di barriera che non poteva essere superata da un essere stremato di forze.

A questo punto i tre uomini lanciarono i tizzoni contro il selvatico, il che lo fece desistere dal tentativo di riguadagnare la tana. Nel frattempo uno degli altri uomini rimasti presso la tana vi si introdusse e, uno per volta, ne trasse fuori due orsacchiotti che, caso strano, nonostante la loro tenera età, si ribellavano ferocemente a colpi di zampa, munite di unghioni sviluppati oltre il normale, e affondando i piccoli aguzzi denti nelle mani del catturatore tanto da farle sanguinare. La ragione della precoce ribellione e ritrosia, a mio parere (a quell’età gli orsi sono molto timidi e accolgono il nemico ritirandosi spaventati con le spalle al sicuro di qualche riparo ma senza tentare alcuna difesa), va ricercata nello stato bisognevole di nutrimento in cui versavano o per malattia congenita, poiché fra i tanti casi a mia conoscenza non ricordo che giovani della specie si siano, come questi, ribellati. Questa versione trova conferma nel raffronto fatto coi due congeneri, “Lecce” e “Turchio” d’indole bonaria, e con quella formulata dal Dott. Vincenzo Fazi, veterinario di Gioia dei Marsi, alle cure del quale gli orsetti vennero affidati per alcuni giorni, fino a quando cioè non si furono pressoché ristabiliti. Quegli uomini, a mio parere, sono stati temerari e inconsiderati poiché fra tutti non avevano altra arma oltre la scure, e debbono la loro salvezza al precario stato di salute in cui si trovava il selvatico.

Prigionia non sentita

Appena appresa la notizia della cattura, la Direzione del Parco mi affidò l’incarico dell’immediato ritiro dei due giovani prigionieri, che vennero a tenere compagnia a “Lecce” e “Turchio”, coi quali dividono ancora quotidianamente i pasti, le gioie e i... dolori.

I quattro cuccioli che, a giudicare dalle condizioni della loro detenzione, frequentemente e attentamente osservata, sono da ritenersi coetanei, avevano in comune soltanto il colore del pelame, tanto che a giudicare da esso sembrava appartenessero alla stessa cucciolata, ma la loro mole, e quindi il loro peso, differivano del doppio. Difatti, il peso dei primi due, alla data del 30 aprile, era di circa 5 kg ciascuno, mentre i secondi ne pesavano appena 2,500 circa. Il peso odierno (10 dicembre 1955) è: “Turchio” kg 32, “Lecce” 30, “Villa” e “Marcolana” 25. Ho già reso noto il modo a cui dovetti ricorrere per l’allevamento dei primi due, che mi dettero delle serie preoccupazioni, ma a confronto di quello resosi necessario per salvare “Villa” e “Marcolana” può considerarsi un divertimento e quasi mi meraviglio con me stesso per la felice riuscita dell’allevamento; la gran parte dei meriti, però debbo condividerla non solo col Dott. Fazi, ma anche coi miei due mai bastantemente lodati coadiutori, le guardie Del Principe e Petrella, la cui appassionata e intelligente opera mi è stata anche in questo caso di prezioso, valido aiuto. Se i primi due si rimpinzavano per generosa offerta di una cagna prima di una capra dopo, i secondi resero problematico il provvedere alla loro alimentazione dato che, non essendomi stato possibile trovare nelle vicinanze una cagna che potesse allattarli, essi, se avvicinati alle mammelle della capra, trattenuta a viva forza, distribuivano prodigalmente morsi e graffi tali da ridurre a brandelli i capezzoli. Inutili furono i tentativi di far prendere loro il latte con il biberon e simili, quali poppate fatte con zucchero e con miele, ecc., sicché si rese necessario ricorrere all’alimentazione forzata somministrando loro, con cautela, latte munto e addolcito ma facendolo ingozzare per forza. Per compiere questa operazione era indispensabile l’operazione di due persone una delle quali, presi con una mano gli arti anteriori del cucciolo, lo sollevava da terra e con l’altra lo costringeva a tenere la bocca aperta a mò d’imbuto; l’altra persona con un cucchiaio versava lentamente il latte addolcito e lievemente riscaldato nella bocca del riluttante. Nel contempo gli unghioni degli arti posteriori del cucciolo graffiavano energicamente, fino a farli sanguinare, mani e polsi di colui che, per loro bene, li tratteneva nella incomoda posizione. Questo lavoro durò una quindicina di giorni, non riuscendo diversamente a far prendere loro spontaneamente alcun cibo. Durante questo periodo le nostre mani e i polsi erano ricoperti di ferite. Ricorsi al miele puro, che le prime volte veniva ricusato, con la necessaria pazienza e costanza si riuscì a farli abboccare al dolce alimento che veniva servito col cucchiaio fino a quando cominciarono a leccarlo; poscia si passò alla bacinella, nella quale si cominciò ad aggiungere un po’ di latte, leggermente allungato con acqua, che veniva progressivamente aumentato inversamente al miele, che veniva sempre più ridotto fino a formare la miscela nelle volute dosi. L’aggiunta dell’acqua si rese necessaria in seguito ad accertamento, dall’esame delle feci, dell’eccessivo contenuto di grasso nel latte caprino per i giovani prigionieri. Alcuni giorni dopo, all’ora fissata per i pasti, essi reclamavano il latte, che ingoiavano con voracità non comune nella specie. Un mese e mezzo circa dopo si cominciò a somministrare lo stesso alimento che veniva offerto agli altri due, cioè latte addolcito con intriso qualche biscotto, giungendo a formare, lentamente, delle vere pappe che consumavano tanto volentieri che per evitare zuffe bisognò dividere le razioni. Ai biscotti si venne lentamente sostituendo la mollica del pane e alcune settimane dopo si aggiunse al pasto qualche patata cotta, indi frutta, verdura e così via aumentando la quantità di questi alimenti in opposto al latte, che veniva riducendosi fino a sospenderlo, del tutto il mese di agosto, cioè verso il settimo mese di età. Oggi viene dato loro pane, polenta, patate cotte, verdura cruda, frutta, ghianda, faggina, ecc., tutti alimenti che consumano molto volentieri. Finora non si è mai offerto carne e se qualche volta, a titolo di esperimento, è stata avvicinata, è stata palesemente ricusata. Il carattere dei quattro giovani ospiti diviene sempre più docile e quelli che ieri erano i ribelli sono oggi i più affezionati. Essi già riconoscono a distanza, sia alla voce che al fischio e perfino con l’olfatto, chi provvede alle loro cure, e lo accolgono con festosi uggiolii. Vivono vita comune e in buona armonia nella stessa gabbia ma, per evitare liti, al momento dei pasti è buona norma fare in modo che tutti consumino lo stesso cibo e ognuno la propria razione; diversamente romperebbero subito i rapporti di buona amicizia scambiandosi reciproche minacciose ringhiate e se l’uno non cede con le minacce il cibo dell’altro, passando senz’altri preamboli alle vie di fatto, avventandosi ferocemente l’uno contro l’altro. I rancori, però, sono di breve durata e una volta sfogata la momentanea ira riprendono subito dopo a rincorrersi per gioco facendo piroette e capriole nello spazio loro concesso dalla gabbia. “Turchio”, l’unico maschio, ormai riconoscibile anche dall’occhio del profano essendo il più sviluppato di mole, difetta, almeno pel momento, del benché minimo senso di cavalleria e, al contrario, essendo anche il più forte, abbonda di despotismo. Se portati all’aperto, tutti studiano la maniera per meglio dare sfogo ai loro muscoli correndo, saltellando, arrampicandosi per ogni dove e specialmente alle piante, ma la maggiore attrattiva è costruita dai cicli e dai motocicli che cavalcano in tutti i sensi da veri acrobati. La massima distanza che frappongono con l’uomo durante i loro giochi non supera i 40, 50 metri e se il custode, in vena di giocare anch’egli, si nasconde alla loro vista, viene naso al vento, premurosamente ricercato. I sensi, specie quello dell’olfatto, sono già abbastanza sviluppati. Con questi orsetti si può ancora tranquillamente giocare senza timore di essere offesi, e ciò finché ne hanno voglia, ma una volta stanchi o svogliati conviene rinunciare ai giochi se si vuole evitare la sbucciatura di qualche mano.

Quando, in passato, fra i visitatori vi era qualcuno che portava seco qualche leccornia per farne generosa offerta ai prigionieri, veniva da questi riconosciuto e festosamente accolto con uggiolii. Essi si indirizzavano, sicuri, verso il benefattore che distinguevano nettamente dagli altri. Dico in passato poiché, data l’esagerazione a cui alcuni si spingevano forse per accesso di generosità o, molto più facilmente, per vederli più lungamente giocare nella contesa della leccornia, portavano loro biscotti, caramelle, cioccolato, confetti e altri dolciumi, oggi la Direzione del Parco, onde evitare eventuali disturbi gastro-intestinali in conseguenza della abbondante indigestione di sostanze dolci, si è vista costretta ad allontanare ancor più il recinto di filo di ferro spinato per impedire che il pubblico si avvicini troppo alla gabbia dei goffi ma simpatici ospiti.
Sono con me, alla finestra del mio ufficio, tre dei miei quattro "pupilli"
In funzione di balia

domenica 12 gennaio 2014

Traduzione articolo del Washington Post

La Panarda: ristorante di Philadelphia ospita una tradizione secolare che è una maratona, ma non una gara

Di Domenica Marchetti

Philadelphia - Hahri Shin è il primo ad arrivare, a mezzogiorno, un’ora prima dell’inizio programmato della festa. È venuto attrezzato per l’occasione, indossando una tuta da ginnastica rosso brillante, una fascia bianca in testa e portando una bottiglia di Rolaids (ndt: pastiglie antiacidità).
L’occasione è la terza edizione annuale della Panarda, un banchetto di nove ore e 40 portate che si tiene a “Le Virtù”, un ristorante di South Philadelphia che si concentra quasi esclusivamente nel cibo abruzzese, regione dell’Italia Centrale.
In una domenica innevata di dicembre, 30 commensali che hanno pagato una quota di 250 $ si sono riuniti per gustare l’epico pasto preparato dal capo chef Joe Cicala e dal suo piccolo staff. Iniziata alle 13.41 con olive fritte ripiene di brasato di fagiano e finita intorno alle 22.30 con torrone tempestato di semifreddo al cioccolato e torta con mele sbriciolate in cima.
«È una maratona», dice Shin, programmatore di computer in una start-up di assistenza sanitaria, mentre gira nel ristorante proprio come le raffiche di neve all’esterno, «sono un ex Boy Scout. So che si deve sempre essere preparati».
Per alcuni, come Shin, l’obiettivo era di mangiare tutti i piatti saggiamente porzionati. Ad altri bastava semplicemente essere seduti in uno dei due tavoli preparati nella piccola sala da pranzo principale illuminata con luci soffuse.
«Entrambi i lati della mia famiglia provengono dall’Abruzzo» dice Nick Strarinieri, un avvocato dalla Contea di Montgomery, Pennsylvania. «Ho avuto un’emozione quando ho visto seppie in umido nel menù, era un piatto tipico di mia madre».
La Panarda è effettivamente una maratona, ma non del tipo mangia-tutto-quello-che-puoi-nel-minor-tempo-possibile, che puoi trovare alle fiere di contea o nei programmi sul cibo spazzatura, la festa è una tradizione secolare ricca di significato culturale, religioso e folkloristico. Ha ancora luogo in alcuni Paesi abruzzesi, soprattutto montani, dove gli inverni possono essere duri e un pasto celebrativo che richiede giorni di preparazione ha un fine diverso, per non parlare della comodità.
Storicamente la Panarda era organizzata dai nobili della città per le persone che avevano lavorato per loro, dice Francis Cratil, che con la moglie, Catherine Lee, è proprietario de “Le Virtù”. Era una celebrazione collettiva del raccolto, tenuta in un periodo dell’anno in cui avviene di solito la macellazione del maiale e quindi le dispense erano piene.
La prima Panarda documentata, nel 1657, ha avuto luogo nel Paese di Villavallelonga. Secondo la leggenda, una giovane madre di cognome Serafini lasciò un neonato nella sua culla mentre andava a prendere l’acqua al pozzo. Quando ritornò, la creatura era tra le fauci di un lupo. Lei pregò Sant’Antonio Abate, protettore degli allevatori di animali, e il lupo rilasciò il bambino illeso. La giovane donna promise di tenere un banchetto annuale in onore del Santo. (ndt: l’articolo contiene un errore: il miracolo della famiglia Serafini è quello dei diavoli mietitori. Quello del lupo è relativo invece alla “festa a foc”, della famiglia Bianchi).
Da allora ogni anno la famiglia Serafini tiene la Panarda a Villavallelonga il 17 gennaio, giorno della festa di Sant’Antonio Abate. Al di là della celebrazione religiosa e civile, dice Cratil, la Panarda è sempre stata, per certi versi, un atto di sfida, in linea con la natura dura e testarda degli abruzzesi.
«Si trattava di esorcizzare le difficoltà endemiche della vita in questi remoti Paesi d’Abruzzo» dice Cratil, il cui nonno proveniva da Castiglione Messer Raimondo, in Provincia di Teramo. «Le persone pensavano “finché abbiamo questa abbondanza, questo cibo nelle dispense, festeggiamo. Non abbiamo intenzione di mettere tutto da parte. Siamo ottimisti e ci godiamo l’abbondanza”»
È questo l’aspetto che ha affascinato Cratil. Quando “le Virtù” fu inaugurato, nel 2007, la sua sopravvivenza non era affatto scontata. Innanzitutto aveva aperto durante un periodo di recessione economica, inoltre si era impegnato a focalizzarsi sui cibi rustici di una regione che in pochi conoscono. «Molti pensavano che fossimo degli sciocchi» dice Cratil. Nel 2010 il capo chef, una donna di talento e di temperamento abruzzese, lasciò. Lo stesso Cratil era malato di cancro.
Alla fine dell’anno le cose iniziarono ad andare meglio. “Le Virtù” assunse Cicala, un nativo del District of Columbia che aveva lavorato da Galileo, da Cafe Milano e da Del Posto a New York. Il ristorante ottenne buone recensioni sulla stampa di Philadelphia. «Abbiamo voluto celebrare la nostra stessa sopravvivenza» dice Cratil, che era in ospedale durante la prima Panarda ma si riprese.
L’evento è ormai famoso e fa rapidamente il tutto esaurito una volta annunciato - di solito in meno di un’ora. Nonostante il prezzo alto, dice Cratil, il ristorante non trae profitto dalla Panarda. «Non guadagnamo un centesimo. La teniamo ogni anno come impegno verso la nostra missione».
Cicala, l’aiuto chef Brandon Howard e la pasticciera Angela Ranalli si preparano per quattro giorni per essere pronti all’evento di quest’anno. Il menù è stato fatto dopo una Panarda tenuta nel 1994 a Villa Santa Maria (CH) presso la rinomata scuola di cucina che ha formato alcuni dei migliori chef italiani. È stata organizzata in 10 “servizii”, per la maggior parte costituiti da quattro o cinque portate, con pause nel mezzo. L’evento segue un certo ritmo, con un andamento di pietanze che diventano gradualmente più sostanziose, poi più leggere, poi di nuovo sostanziose.
Sono stati presentati alcuni ingredienti tipici abruzzesi - frutti di mare per rappresentare la costa adriatica, lenticchie e fagioli coltivati nell’entroterra, un’ampia scelta di pasta, carni di maiale e agnello e formaggi di latte di pecora - tutto accompagnato con una selezione di vini della Cantina Frentana, un produttore abruzzese.
Tra le tante portate i piatti clou sono stati il brodetto di molluschi, un’abbondante pasta e fagioli, salumi fatti in casa e un ricco stufato di tenero agnello (agnello brasato) servito verso la fine del pasto che un commensale ha descritto come una “ninna nanna”. Ma la star della serata è stato il timballo di crespelle di Cicala, un enorme cupola di crepes salate a strati cotta al forno, con formaggio, polpettine, tenera carne di maiale e salsa.
Mentre la neve si accumulava all’esterno e il pomeriggio diventava sera, i commensali facevano tintinnare i bicchieri con un brindisi. Alcuni si alzavano per sgranchirsi le gambe o per controllare il risultato della partita Eagles-Lions, altri si avventuravano fuori a lanciarsi palle di neve tra una portata e l’altra.
Un gruppo di quattro persone è giunto all’incirca intorno all’undicesima portata (cotechino bollito con lenticchie) e è messo a mangiare in fretta per recuperare. Tra di loro c’era Daniel Chadwick, un gestore di un ristorante di Philadelphia, e suo fratello Jay, capocuoco all’Alba Restaurant. Erano rimasti bloccati sulla Interstate 76 ed avevano 10 ore e mezzo di ritardo, senza scoraggiarsi. «Qui è dove mi sono sposato», dice Chadwick, in parte abruzzese, «siamo rimasti coinvolti in due incidenti lungo la strada, ma non avevamo intenzione di perderci l’evento».
Con il pasto che volgeva al termine, gli irriducibili e i loro compagni di tavola volevano finire gli ultimi mozzichi di rosetta fritta e torta di mele. I brindisi finali erano stati scambiati e persone che si erano sedute come estranei o conoscenti si alzavano stringendosi la mano o abbracciandosi come amici.
«Il cameratismo con gli altri del mio tavolo ci ha aiutato ad arrivare fino alla fine» dice Shin. «La neve che cadeva ha reso l’esperienza ancora più speciale. È stata una notte che non dimenticherò mai».

Per avere informazioni sulla Panarda del prossimo anno, visitare www.levirtu.com o chiamare il 215-271-5626. Marchetti è autrice di diversi libri di cucina: l’ultimo è “The Glorious Vegetables of Italy” (Chronicle Books, 2013).

Traduzione e adattamento: Achille Ferrari
Supervisione: Anselmo Lippa

Comunicato stampa n. 1/2014

La Panarda di Villavallelonga sul Washington Post

Villavallelonga (AQ), 13 gennaio 2014 - Ha destato molta eccitazione e grande stupore la pubblicazione, da parte dell’autorevole quotidiano statunitense Washington Post, di un interessante articolo sulla Panarda, l’antichissimo banchetto devozionale che si tiene annualmente a Villavallelonga la notte del 16 gennaio.

Il Washington Post, fondato nel lontano 1877, è il più diffuso e antico giornale di Washington. L’articolo, pubblicato lo scorso 31 dicembre e successivamente ripreso nelle sezioni “Food” e “Travel” di altre importanti testate americane, è stato scritto dalla giornalista di madre italiana Domenica Marchetti e prende spunto dalla curiosa iniziativa del ristorante “Le Virtù” di  Philadelphia di proporre nel proprio menù i piatti tipici del tradizionale banchetto commemorativo abruzzese.

La rivisitazione della Panarda da parte del rinomato ristorante specializzato nella cucina tipica abruzzese e dell’Italia Centrale, giunta quest’anno alla terza edizione, prevede un pasto di nove ore e 40 portate, al prezzo di 250 dollari e  permette ai clienti di cimentarsi in una variegata e lunga maratona gastronomica accompagnata da una selezione di vini abruzzesi.

Il tradizionale e antichissimo banchetto della Panarda di Villavallelonga, definito anche da alcuni antropologi “orgia alimentare” e in generale i festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate, stanno riscuotendo, nel corso degli anni, notevole interesse a livello nazionale e internazionale da parte di studenti universitari, storici, antropologi, trasmissioni televisive nonché l’attenzione dell’Unesco che, da qualche anno, ha avviato il lungo e difficoltoso iter istruttorio per il riconoscimento, della Panarda, come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

La festa di Sant’Antonio Abate, che si celebra annualmente a Villavallelonga il 16 e 17 gennaio, si articola, infatti, in un sistema rituale piuttosto complesso e ricco di simbolismi (maschere, Pupazze, cesti, Corone, fuochi, Cottore, carri allegorici) che può essere esaminato da molteplici prospettive e nel quale i vari aspetti si intersecano sia a livello funzionale che di valori ma che trova il suo momento principale nella Panarda, alla quale ognuno partecipa in un clima di eccezionale solennità, ritenendosi responsabile ed obbligato a mantenere viva una tradizione che appartiene al comune patrimonio culturale.

Fa sorridere l’idea che, oltreoceano, si mantengano così vive certe tradizioni, magari trasformandole nel corso degli anni in veri e propri “prodotti commerciali di successo”. Come affermano i proprietari del ristorante “Le Virtù”, nonostante il prezzo pagato per partecipare alla maratona sia piuttosto alto, il guadagno non è l’obiettivo principale dell’iniziativa, quanto di offrire ai partecipanti la possibilità di sentirsi parte di una devozione e di un’italianità che tutti sentono l’obbligo morale di rievocare e di far conoscere alle giovani generazioni e ai figli degli emigranti l’autenticità delle proprie radici.

La traduzione Italiana dell'articolo è consultabile qui.


Nicola Di Ponzio, Achille Ferrari - Associazione D.F.P.

Preparazione della Panarda - Foto: Paolo Simoncelli

Canti e Suoni visitano le Panarde - Foto: Paolo Simoncelli