venerdì 23 maggio 2014
mercoledì 16 aprile 2014
Digital Love - 26 aprile 2014
DIGITAL LOVE: Musica, Arte, Immagini nell’Era dell’Amore Digitale
Ingresso dalle ore 00:00
Open Act Live Nadia Casari aka Keilan
A seguire
DJ SET
Anthony Ray
Daniele Rosati
Quore
Valerio Panfili
SPECIAL GUEST
Digital Boys (Ballerini)
Elektro Women (Ragazze Immagine)
Milla Make Up (Body Paint e Trucco per i partecipanti)
Durante la serata verrà inoltre proiettato in ANTEPRIMA il Videoclip del Remix di RAIN, brano trance progressive composto nel 1998 dal duo italiano Brainbug conosciuto a livello internazionale, scritto e interpretato da Nadia Casari, allora lead vocalist del progetto.
Il Videoclip del nuovo brano prodotto e arrangiato da Luciano Madon, è stato coprodotto dalla D.F.P., diretto da Giovanni Giacobelli e Stefano Ricco, interpretato, tra l’altro, da alcuni ragazzi di Villavallelonga e girato nella faggeta di Vallone Tasseto nell’Ottobre 2013.
La D.F.P. si riserva il diritto di selezione all’ingresso.
Info Line: 329 3996534
domenica 13 aprile 2014
2070 battute: Storia di Villavallelonga (2)
Racconto estratto dal libro di Leucio Palozzi “Storia di Villavallelonga” del 1982.
Il racconto ricostruisce il terremoto del 1915 dal punto di vista della cronaca nazionale, ponendo l'accento sul senso di collaborazione e solidarietà della popolazione di Villavallelonga.
Il libro è disponibile al prestito, alla consultazione e alla vendita presso la Biblioteca Comunale.
Il terremoto marsicano del 1915
Alle ore 7,55 di mercoledì 13
gennaio dell’anno 1915 alcune scosse
sismiche, durate circa 20 secondi, ferirono gravemente la terra marsicana.
Il territorio in pochi attimi fu devastato, le opere in gran parte distrutte,
la vita di molti abitanti cessò e, seppure con il freddo intenso, le strade
furono in breve affollatissime sbugiardando l’espressione rivolta al poltrone:
<<Manghe i tarramute te smòve>>.
L’epicentro si registrò nel bacino del Fucino e ciò fece riemergere le
polemiche sul prosciugamento del lago; ad Avezzano si ebbe la maggiore rovina,
mentre i Centri circonfucensi subirono più o meno danni, a causa della
differente costituzione litologica del sito topografico dove sorgevano gli
abitati.
I giornali dell’epoca hanno
pubblicato molte cronache con dovizia di particolari e di una di queste pagine
risulta una drammatica e significativa testimonianza. Alle ore 9 del 18 gennaio
l’inviato speciale del periodico La
Tribuna mosse da Avezzano lungo una via fiancheggiata da cadaveri e si
fermò nei pressi di un gruppo di persone fra le quali riconobbe l’onorevole
Sipari che stava ascoltando un giovane taciturno e malinconico. Il profugo raccontava la sua esperienza:
<<Io sono vivo per miracolo. Del mio paese non è rimasta in piedi una
casa. Il terrore e l’angoscia la non ha limiti>>. Dopo queste parole
l’onorevole chiese: <<Quale paese?>>. E il giovane rispose ancora:
<<Villavallelonga. Il paese
estremo di queste montagne marsicane, oltre Luco, oltre Trasacco, oltre
Collelongo. Io non so come sono vivo e come abbia potuto salvarmi con mia
madre. C’è cascata addosso la volta di tre piani>>.
La commozione fu tale che i
presenti decisero di andare a Villavallelonga e le automobili affondarono
<<in un viottolo sfasciato trabalzando nel fango>>. L’inviato
riferisce altre notizie del suo pellegrinaggio e poi descrive l’arrivo a
Villavallelonga: <<Proseguiamo per questo estremo paese della Marsica a
mille metri di altitudine. Lasciamo a destra il paese di Collelongo che
visiteremo al ritorno. L’automobile percorre una via che si svolge su per i
contrafforti dell’Appennino. Ecco la chiesuola di campagna di San Leucio,
protettore di Villavallelonga. Uno squarcio enorme è visibile a distanza:
dentro anche il Santo è caduto frantumandosi. All’entrata del paesello con 2 mila abitanti, vediamo il
Palazzo comunale gravemente lesionato e il garage di una Società
automobilistica, il cui tetto è crollato. Ci sono circa 70 morti e 200 feriti, alcuni dei più gravi sono stati portati a
Roma, altri sono in traballanti baracche costruite con tavole tolte alle
rovine. Tra i morti sono contadini e negozianti. Ho notato questi nomi: Coccia
Carmine, Angelo Serafini, Natale e Pasqua Tantalo, Antonio Serafini, Tantalo
Nicola. Più di venti cadaveri sono ancora tra i rottami. La popolazione ha dato
prova di rara disciplina. Essa ha subito provveduto da se a scavare le macerie.
Anche a Villavallelonga la strage delle
case è totale. All’interno è tutta una maceria e le provviste di grano e di
patate sono rimaste sepolte. Tutte le chiese sono crollate. Ho veduto la chiesa
parrocchiale: il tetto è sprofondato e le mura esterne si reggono per un
miracolo di equilibrio. In questo tempo cinque minuti prima che il terremoto
travolgesse questa plaga di Abruzzo era raccolta tutta la popolazione perché si
celebravano le funzioni per il matrimonio
di due ricchi paesani. Il corteo era uscito sulla piazzetta quando è avvenuto
il grande crollo. Cinque o sei vecchiette che si erano indugiate nella
chiesuola sono rimaste sotto i cumuli e non fu possibile il salvataggio se non
per due di esse. Una ventina di popolani si sono salvati per miracolo>>.
Dopo la descrizione della
situazione trovata, il cronista ritiene doveroso soffermarsi sull’abnegazione manifestata dai cittadini:
<<Questo paese merita di essere segnalato. L’iniziativa privata ha qui
avuto benefica ed esemplare affermazione e se in tutti gli altri luoghi colpiti
si fosse rivelata una tale virtù nelle popolazioni, l’opera dello Stato avrebbe
trovato terreno infinitamente più atto allo sviluppo della sua opera di
soccorso. Il Sindaco, Angelo Ferrari,
e il dott. Di Ponzio, sono due individui che è doveroso indicare quale esempio
a quanti altri si trovarono nelle loro condizioni. Essi hanno fermato le
reclute che dovevano partire, militarizzandole per gli scavi, hanno requisito
le poche derrate trovate in fondo alle rovine. Hanno improvvisato delle cucine
economiche, hanno distribuito con buoni del Sindaco razioni ai cittadini, ed
ora anche per consiglio dell’egregio ing. Petrilli e dell’on. Sipari tentano di
riattivare il mulino e le comunicazioni automobilistiche con Avezzano. Tutto
questo è avvenuto per virtù di popolo e disciplina di amministrati e
amministratori. Così fu possibile ai cittadini di Villavallelonga salvare oltre
un centinaio di persone, con un lavoro audacissimo e ordinato; e così fu loro
possibile organizzare i primi servizi urgenti di sussistenza e assistenza per
non far morire di freddo e di fame gli scampati. Debbo però subito avvertire
che questo confortante fenomeno di solidarietà
cittadina – tanto più confortante quanto più grave è la strage – non ho potuto
ammirare in altri luoghi>>.
Una pagina di cronaca che oggi è storia e testimonia la situazione dei
profughi di questo estremo e isolato Centro
della Marsica che dopo cinque giorni dal terremoto aveva fatto appello alle sue
sole forze, ma le condizioni si aggravarono ancora; infatti il 20 gennaio una
bufera di neve infuriò nella Marsica e il 22 fu pubblicato un appello di Collelongo dove si narrava
che a dieci giorni dal terremoto non avevano ricevuto alcun soccorso.
Le testimonianze dei cronisti,
però, debbono essere integrate con la lettura dei dati che a Villavallelonga sono attestati nei libri parrocchiali.
Le vittime registrate il giorno del terremoto (13 gennaio) furono 46, di cui 16
al di sotto dei 25 anni, 9 tra i 25 e 50 anni e 21 con oltre 50 anni. Nei due
mesi successivi la triste sorte fu seguita da altre 20 persone, di cui 17 tra i
64 e i 91 anni; nel restante periodo dell’anno si ebbero altri 30 decessi per
complessivi 96 morti; tuttavia seppure il 13 gennaio può essere annoverato come
il giorno più luttuoso, non altrettanto si può dire per l’anno 1915 che non fa
registrare l’infausto primato.
La popolazione fu colpita nella
vita e nelle opere, nei ricordi del passato e nei segni monumentali della sua
esistenza. La chiesa secolare, prima sede della parrocchia edificata sotto il
titolo originario di S. Nicola, fu rasa al suolo e la chiesa della Madonna
delle Grazie, preziosa testimonianza dell’influenza
benedettina, già intitolata a S. Bartolomeo, fu gravemente danneggiata al pari
della chiesa di S. Leucio. L’esercizio del culto fu assicurato celebrando le
funzioni liturgiche in una baracca di legno appositamente costruita in Largo
Crocicchia, nei cui pressi si trovavano anche le prime capanne di ricovero per
i terremotati. Dalla relazione degli ingegneri che il 31 gennaio visitarono il
paese, risulta che il 30% degli edifici fu dichiarato abitabile, mentre il 50% fu mediamente
leso e il restante 20% si trovo distrutto;
dal documento risulta ancora che le case senza bisogno di lavoro erano 150 e
che il mulino era riattivabile.
La gran parte delle case
distrutte si trovava arroccata intorno alla Chiesa parrocchiale e con queste
distruzioni e successive ricostruzioni molte caratteristiche della Rocca di Cerro medioevale sono state
cancellate, anche se negli ultimi tempi alcuni indizi sono stati ricondotti
alla luce e sul posto è possibile ricostruire alcuni profili ambientali e
testimonianze di vita.
Il comitato dei Lavori Pubblici
ha a suo tempo ritenuto che il fattore
edilizio fosse quello che aveva maggiormente influito nel cedimento o nella
resistenza di fronte alla scossa, anche se si doveva riconoscere una debita
parte della struttura geologica e della conformazione topografica del suolo sul
quale sorgevano le abitazioni. Per la ricostruzione delle case furono concessi alcuni
mutui che, soltanto in epoca successiva, vennero trasformati in contributi;
tuttavia le complesse procedure non permisero a molti di usufruirne, anche se a
tale scopo molti edifici furono inevitabilmente distrutti e non mancò
l’indignazione per lo sfruttamento della grande sventura nazionale.
Dalle primitive baracche di legno
gli abitanti furono sistemati in altre provvisorie costruzioni di laterizio che
hanno condotto in locazione; la successiva mancanza di interventi definitivi ha
indotto gli abitanti a richiederne l’acquisto in modo da provvedere alle
necessarie ristrutturazioni, facendo cessare la lunga emergenza.
martedì 1 aprile 2014
Digital Love - 26 aprile 2014
Dopo tre lunghissimi anni dallo
strepitoso e chiacchierato Friendly Dance Party “Love is Love”, la D.F.P. è
lieta di presentare, in occasione del ventennale, “Digital Love”,
un remake evolutivo del progetto “Technological Love” organizzato nel lontano
24 aprile 2008.
L'era del digitale, del post-moderno come indiscussa protagonista del
tema di questo Party.
I ritmi frenetici, la troppa materialità e la poca spiritualità, la
perdita di valori fondamentali, l'estinzione del gusto della semplicità, del
naturale e del bello porteranno a chiederci: Chi siamo? Dove stiamo andando?
Con il passare degli anni e con la continua innovazione tecnologica
riusciranno a farci diventare robot, ma soprattutto non esisteranno più
l'irrazionale e i sentimenti.
L’amore e le emozioni saranno vissute sempre più via cavo…
Nel 2070 saremo ciò che decideranno per noi...Chi deciderà? La
Technologia.
Allieteranno la serata vari DJs e
tanti ospiti provenienti da galassie lontanissime, discesi appositamente sulla
Terra per rinnovare l’appuntamento con il nostro dance floor digitale.
Nel frattempo vi invitiamo ad
inizializzare il sistema operativo per prepararvi alla digitalizzazione!
giovedì 27 marzo 2014
Visita alla Mostra di Mogliani, Soutine e gli Artisti maledetti, Palazzo Cipolla, Roma
L'Associazione D.F.P. organizza, per i partecipanti al Corso di Disegno, Pittura e Incisione, la seconda Visita guidata alla Mostra di Modigliani, Soutine e gli Artisti maledetti il prossimo 30 marzo 2014.
L'organizzazione di visite guidate alle varie Mostre di Pittura e d'Arte costituisce un'importante occasione formativa per gli allievi del Corso, finalizzato all'insegnamento e alla conoscenza delle diverse tecniche pittoriche e della Storia dell'Arte in generale.
Ricordiamo a tutti gli interessati che è possibile iscriversi al Corso di Disegno, Pittura e Incisione presso la Biblioteca Comunale di Villavallelonga il sabato e la domenica dalle ore 15:00.
Presso la struttura è possibile iscriversi inoltre ai Corsi di Inglese (Conversation Club) e Yoga.
domenica 16 marzo 2014
Life Arctos - Sanità animale e orso bruno marsicano
Incontro informativo pubblico che si terrà a Villavallelonga (AQ) il 27 marzo alle ore 18:30 rivolto agli allevatori, cacciatori, tartufari, veterinari, associazioni di categoria e cittadini residenti nei Comuni della Vallelonga (Villavallelonga, Collelongo e Trasacco) per l'illustrazione delle azioni di tutela e conservazione dell'orso bruno marsicano nell'ambito del Progetto Europeo "Life Arctos" e per la successiva fornitura gratuita delle vaccinazioni per cani contro il cimurro.
martedì 4 marzo 2014
2070 battute: Storia di Villavallelonga (1)
Racconto estratto dal libro di Leucio Palozzi “Storia di Villavallelonga” del 1982.
Il testo ripercorre le origini medioevali del Paese per arrivare fino ai primi anni '80, ricordando le figure illustri e descrivendo aspetti storici, culturali e scientifici del territorio.
Il libro è disponibile al prestito, alla consultazione e alla vendita presso la Biblioteca Comunale.
Dalla Riserva di Caccia Reale al PNA
La parte sud-orientale della
Vallelonga, occupata dal Comune di Villavallelonga, si insinua, a giusta di
cuneo, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo. In tale territorio si trovano
numerosi itinerari naturalistici non contaminati da insediamenti artificiali,
ne disturbati dal transito veicolare.
L’esistenza del Parco è oggi una
realtà che merita di essere conosciuta nei suoi presupposti storici, in modo da
porre in luce il ruolo della popolazione locale che ha vissuto in un naturale isolamento, favorito dalla
condizione feudale fino al 1806, dalla
barriera lacustre del Fucino fino al 1875 e dalla chiostra dei monti che si
susseguono a corona lungo le due convergenti catene della Vallelonga.
Quest’area, qualificatasi negli ultimi tempi per il preminente valore
naturalistico, consente di verificare la peculiare evoluzione dei criteri di
riferimento dell’uomo col suo ambiente ed il cambiamento delle condizioni di
vita e lavoro, degli usi e dei costumi tradizionali, che seguono alle
esperienze protezioniste condotte nel secolo scorso e in quello attuale.
Fuori dal sistema feudale la
Marsica è stata interessata dal prosciugamento del Lago di Fucino e dalla
costruzione delle strade obbligatorie che hanno facilitato la conoscenza di
questo territorio. Un bel documento
epigrafo del 1856 costituisce la pietra miliare che riconosce il valore
naturalistico del territorio di Villavallelonga. La piccola pietra, trovata nel
centro storico, è ancora collocata sopra il portale n. 32 di Via Colle
Quaresima e dice così: << AD HUNC COLLIS QUADRIGESIMALIS BALSAMINUM Aer
ReSPIRANDUM ACCeSI M.G.B. A.D. 1856>>. Il messaggio esprime i seguente
significato: Sono venuto a respirare
quest’aria balsamica di Colle Quaresima.
Il primo personaggio illustre che
in epoca moderna ha valorizzato le montagne del Parco è Vittorio Emanuele II,
ultimo Re di Sardegna e primo Re d’Italia, denominato Re galantuomo e padre
della patria. Da buon cacciatore il Sovrano era attento alla descrizione delle
risorse dell’alta Marsica ed in particolare degli estesissimi e secolari boschi
che nascondevano una copiosa selvaggina, peraltro poco insidiata dai cacciatori
locali, a causa delle armi ancora assai rudimentali da questi possedute. La
ricchezza della fauna si esprime in molti toponimi della Vallelonga: agli orsi rimanda il Coppo dell’Orso, ai cervi conduce la Valle Cervara, ai gattopardi (o lince da pardus) fa pensare il
rotondeggiante Colle Pardo. Inoltre il torrente Carnello, oggi fossato di Rosa, doveva essere così chiamato perché
traeva alimento dalle acque displuviali e sorgenti che segnavano zone ricche di
selvaggina.
Nel 1872 il sovrano d’Italia
aveva finalmente deciso di cacciare l’orso nelle montagne marsicane e i
consigli comunali (Castellafiume, Balsorano, Collelongo, Villavallelonga,
Lecce, Gioia, Pescasseroli, Opi) si affrettarono a deliberare, nella sessione
di ottobre, di riservare la caccia grossa al Re galantuomo e così fu istituita
la Riserva di Caccia a Vittorio
Emanuele II. I programmi di caccia prevedevano anche feste e musiche e l’itinerario
più suggestivo veniva indicato nella traversata in mulattiera da Balsorano a
Collelongo e da Villavallelonga a Pescasseroli.
Dopo il 1878, il successivo Re
Umberto I non si mostrò interessato al mantenimento della riserva e la
soppresse; ma, nel 1900, Vittorio Emanuele III, nuovo sovrano d’Italia,
ripristinò la Riserva Reale e,
nell’autunno del 1907, fu invitato a
cacciare l’orso nel territorio di Villavallelonga. La popolazione aveva
preparato grandi accoglienze e i cacciatori del luogo con le guardie rege
avevano predisposto un dettagliato programma
di caccia. La zona della battuta era stata individuata nel Vallone Martino,
dove il Re si appostò dopo aver lasciato alla fonte Tricaglie la propria vettura a motore (la prima giunta in Paese) e
dopo essersi inoltrato nella boscaglia con cavalli e guide. La battuta per lo scaccio dell’orso non tardò a
convogliare un bellissimo esemplare nell’area di osservazione del Re, ma il sovrano rinunciò a colpirlo ed
impedì che altri potessero farlo.
La visita di Vittorio Emanuele
III non mancò di soddisfare alcune richieste della popolazione locale, come il
risarcimento dei danni causati al bestiame e l’interessamento perché il postale
giungesse fino a Villavallelonga. Però, con il passare degli anni, le spese per
i danni crebbero copiosamente e nel 1912, la Casa Reale rinunciò alla riserva,
limitando, con un decreto dell’anno successivo, la sola caccia al camoscio.
La soppressione della Riserva di Caccia non poteva che
comportare, in mancanza del rimborso danni, la necessità per i naturali del luogo di ridurre il numero degli animali ritenuti
responsabili del danneggiamento, con l’ovvia conseguenza di assottigliarsi
inevitabile di tutta la fauna locale. Dalla statistica degli esemplari uccisi o
catturati nel secolo che precede l’istituzione dell’Ente Parco è possibile
cogliere il verificarsi di questo fenomeno.
Dal 1921, con la costituzione
dell’Associazione Pro Montibus e,
successivamente, con l’istituzione dell’Ente Autonomo del Parco Nazionale
d’Abruzzo e del Consorzio per la Condotta Forestale Marsicana, fu possibile
avviare un diverso protezionismo e si
ebbe << una novella prova delle
buone disposizioni delle popolazioni del Parco, le quali, con assoluta fiducia,
hanno rimesso, in tal modo, la tutela dei loro maggiori interessi nelle mani
dei dirigenti dell’ente autonomo>> del P.N.A..
I cittadini di Villavallelonga
avevano molta fiducia che il Parco potesse concorrere a promuovere le
iniziative turistiche e lo sviluppo economico del luogo; risulta, infatti, che
il Sindaco, nel 1925, aveva comunicato all’Ente Parco il desiderio di alcuni
cittadini di investire i propri diritti, in forma di contributo, per la
costituzione di un albergo, impiegando nell’opera lire 300.000, ma la
disponibilità manifestata non determinò il fattivo impegno dell’Ente.
Negli anni successivi i naturali
del luogo sono stati più volte rimproverati per l’eccessivo commercio della
legna, che tuttavia era colpito dalla tassa comunale di esportazione, e così
anche per la cattiva abitudine di tagliare alberi a m. 1,50 dal suolo che
comporta la perdita di molto materiale. I Villavallelonghesi negli anni venti
esportavano ogni anno circa 2.500 metri cubi di legname ed altrettanti
sostituivano il consumo locale, per cui, se da un calcolo approssimativo il
bosco non poteva fornire più di 5.000 metri cubi (circa 40.000 quintali) senza
intaccare il suo capillare boschivo cioè senza tagliare più di quanto il bosco
era in grado di produrre, non pare che allora si siano verificati eccessivi
abusi. Gli accusatori volevano tutelare le foreste <<dall’ingordigia
smodata delle popolazioni e tener fronte a tutte le deviazioni facili a sorgere
nelle menti di gente ingenua ed abituata a considerare il bosco come
suo>>.
L’obiettivo di tutela che si
pretese di assumere da parte di tali accusatori non conseguì molti apprezzabili
risultati, giacché veniva formulato da posizione ingrata e ingenerosa nei
riguardi dei naturali del luogo. E’ sufficiente il riferimento ai documenti
feudali per rintracciare le plurisecolari privazioni di questa gente che tutto
ha potuto dire men che qualcosa fosse stato suo o affermare il suo diritto agli
usi civici, mentre ha dovuto condurre una quotidiana lotta per la
sopravvivenza, che era dettata dalle necessità esistenziali e non
dall’ingenuità delle menti. Piuttosto le ditte forestiere, queste si ingorde,
hanno avviato quella che Loreto Grande chiamò la strage degli alberi innocenti.
L’Ente Parco, dopo essere stato
soppresso nel 1933, per il passaggio della gestione delle montagne all’azienda
di Stato per le foreste demaniali, fu di nuovo istituito il 21 ottobre 1950. A
differenza della prima istituzione, che mirava alla difesa della locale sottospecie
endemica del Camoscio d’Abruzzo
(Rupicapra ornata) e dell’Orso Marsicano (Ursus
arctos marsicanus), nella legge che ricostituiva l’Ente Parco venivano indicate
finalità non solo di tutela, ma anche di potenziamento della fauna e della
flora e di conservazione delle speciali formazioni geologiche e delle bellezze
paesaggistiche.
Dalle esperienze di caccia,
condotte nel quadro della istituita Riserva
Reale, si è pervenuti all’esigenza di proteggere la fauna e la flora della
Marsica orientale con l’intervento di associazioni e enti, realizzando il
significativo passaggio da interessi
feudali e venatori ad impostazioni e progetti naturalistici per interventi
razionali e sistematici. Per la verità non sempre è stato possibile osservare
la razionale programmazione ed il coordinamento degli interventi. Gli scandali
urbanistici in prossimità degli abitati di Pescasseroli, Civitella Alfedena e
Villetta Barrea sono in contrasto con tale esigenza, mentre gli squilibri
realizzati fra i Comuni del Parco con Centri attrezzati e ricettivi rispetto
alle notevoli carenze ed insufficienze dei Comuni più decentrati sono
incompatibili con l’equa ripartizione dei servizi e delle iniziative.
L’obiettivo di assicurare la
fruizione collettiva della ricchezza biologica non può non essere coniugata con
l’appoggio delle genti che in loco
risiedono e operano, in modo che l’imposizione dei vari vincoli comporti il
risarcimento dei danni subiti e non risulti generica, rigida o fittizia
nell’indicazione delle opportunità di lavoro, ma sviluppi forme
cooperativistiche e modalità di gestione dei servizi che tutelino l’uomo nel
suo ambiente e col suo ambiente, cioè l’uomo integrale nelle sue concrete
condizioni ambientali.
In tema di presenze deve essere
registrata la prima iniziativa, piuttosto discutibile, realizzata a
Villavallelonga con il festival musicale-ecologico patrocinato dall’Ente Parco
con l’adesione del W.W.F. (Fondo mondiale per la natura), della Lega per
l’energia alternativa, della Lega naturista, del Gruppo dimensione e natura
dell’Associazione Amici del Parco. La
manifestazione, denominata l’orso nel
sacco a pelo con la chitarra, si è svolta sui Prati d’Angro dal 27 al 31
luglio del 1977. Il programma prevedeva dibattici politici-ecologici e musiche
che hanno richiamato quasi diecimila giovani provenienti da tutta Italia e
anche dall’estero. L’esplosione dei servizi, di fatto inesistenti, e la natura
dell’iniziativa, autogestita, ma non dai locali, hanno evidenziato le carenze
più notevoli ed hanno riproposto la necessità di pervenire alla individuazione
delle finalità turistiche in relazione alle concrete possibilità ricettive dei
servizi in funzione.
Al di là delle incongruenze
riscontrate in tale circostanza, sembra acquisito e significativo il ruolo
giocato dalle popolazioni del Parco nell’interpretare il passaggio dalla Riserva di Caccia alle esperienze
naturalistiche del Parco Nazionale de Abruzzo. I criteri di riferimento per un
corretto rapporto tra l’uomo ed il suo ambiente di vita sono andati via via
evolvendosi; in questa area, qualificatasi per il preminente valore naturalistico, si deve ora
verificare sia la rinascita dei territori montani, sia il progresso economico,
sociale e culturale delle comunità locali.
![]() |
Pietra posta in località Colle Quaresima attestante la salubrità dell'aria di Villavallelonga |
![]() |
Ritratto di Re Vittorio Emanuele II di Savoia, di Tranquillo Cremona |
![]() |
Manifesto dell'evento "L'orso, nel sacco a pelo, con la chitarra" |
giovedì 30 gennaio 2014
Comunicato stampa n. 2/2014
Villavallelonga (AQ), 30 gennaio 2014 - In occasione della Celebrazione del Ventennale di quello
che oggi è diventata l’Associazione di Promozione Sociale D.F.P., saranno organizzate,
nel corso del corrente anno, attività e progetti speciali (mostre, proiezioni,
convegni, dibattiti, pubblicazioni, party,
tributi ed eventi commemorativi) al fine di ripercorrere e rivivere i vari momenti
artistici, culturali, musicali, fotografici, promozionali, ambientali e sociali
che hanno contraddistinto l’attività associativa, il cambiamento e l’evoluzione
della stessa e dell’intero contesto generale di riferimento, omaggiando,
infine, i tanti Personaggi e Artisti che, nel frattempo, hanno ispirato il
nostro personale linguaggio creativo.
…Dal 1994 al 2014, da due a 15
soci fondatori (circa), dalla cameretta
alle pubbliche piazze passando per Philadelphia,
dal 412732 allo smartphone, dalle musicassette ai files mp3, da Gioca e suona con Cristina alla play station,
da Non è la Rai al Grande Fratello, dall’insostenibilità del debito pubblico e dei
sistemi pensionistici nazionali alla crisi finanziaria internazionale, dalla
lira all’€uro, dalla firma del Protocollo di Kyoto alle terre italiane
avvelenate, dalle foto virtuali alle
pellicole cinematografiche e ai Videoclip, dai copy book al blog, dal monopolio
delle scene alle spicciole clonazioni…
Gli eventi organizzati
permetteranno, inoltre, a chi non ci conosce, di avvicinarsi alle nostre finalità
statutarie e, in generale, al mondo del volontariato.
Nel corso dell’anno, inoltre,
l’Associazione effettuerà una valutazione delle attività, dei progetti e degli
eventi organizzati sul territorio ai quali parteciperà a vario titolo, tramite
il rilascio e la pubblicazione di un apposito rating etico.
Infine, per celebrare il grande compleanno, abbiamo effettuato un remix del logo che, concepito, alla fine degli anni ’90, ha già subito
nel frattempo (parallelamente alla frenetica evoluzione tecnologica) alcune piccole
modifiche, unitamente ad una serie inedita di simboli distintivi
dei diversi campi di attività, ideati appositamente per la ricorrenza.
I nuovi loghi saranno inseriti
nelle varie Locandine e Manifesti che faranno da cornice alle tante attività ed
eventi commemorativi che saranno organizzati nel corso dell’anno e che saranno
di volta in volta comunicati.
Per segnalarci eventi ed attività
alle quali avete partecipato e che vi piacerebbe, magari, rivivere, oppure per
proporre nuovi progetti ed idee creative potete contattare l’Associazione e
contribuire in questo modo a strutturare la programmazione annuale.
Da ultimo, vi salutiamo con uno
dei nostri slogan preferiti: “Per chi ha
sempre avuto le idee chiare il programma di qualità è uno solo!”.
Lo Staff
![]() |
Remix 2014 del logo |
mercoledì 22 gennaio 2014
2070 battute: Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo
Racconto estratto dal libro di Leucio Coccia “Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo” –
Pescasseroli, 1980. Il testo consiste in una raccolta di racconti pubblicati negli anni '50-'60 sulla famosissima rivista venatoria Diana, con la quale l'autore collaborava.
Il libro
è disponibile al prestito e alla consultazione presso la Biblioteca Comunale.
Una
seconda cattura di orsacchiotti
La cattura
Erano
le 11 circa del 26 aprile scorso allorquando certo Antonio Bianchi da
Villavallelonga, che nel bosco “Aceretta” trascinava a valle sulla neve un
tronco di faggio, intravide, a non più di venti passi da lui, qualche cosa fra
le piante che scompariva rapidamente dietro una bassa roccia. Spinto dalla
curiosità, volse i suoi passi alla volta del punto dell’apparizione nella
speranza di poter accertare qualcosa mediante la lettura delle eventuali
impronte lasciate sulla neve. Giunto presso la roccia scoprì che sotto di essa
si apriva un buco angusto e buio il cui fondo scendeva in senso leggermente
obliquo, e che sulla neve vicina vi erano soltanto delle ormi somiglianti a
quelle di piedini umani di neonato.
A
tal vista il Bianchi chiamò alcuni suoi colleghi che si trovavano nei paraggi
e, fatto loro osservare quanto da lui scoperto, con l’ausilio di essi, in
numero di quattro, credette di potersi dare subito all’opera di cattura. Ma vi
dovette, in un primo momento, rinunciare dato che, mentre infilava carponi
l’angusto pertugio, l’incauto, e più che tale incosciente, ne venne bruscamente
respinto da un minaccioso e più che mai cavernoso ringhio da fare arricciare i
capelli a tutti i presenti e farli sbaragliare; segno eloquente che la caverna
era abitata da una famiglia di orsi, madre e figli, poiché il maschio è
completamente disinteressato all’educazione della prole.
Visto,
però, che nessun essere vivente venne fuori dalla tana, la squadra dei
catturatori, riavutasi dallo spavento e riacquistato il necessario sangue
freddo, per provocare l’uscita della madre dal covile, ricorse al mezzo più
sbrigativo e a portata di mano: adunò del frascame presso la caverna, vi
appiccò il fuoco e, una volta bene acceso, ve lo spinse dentro. A questo punto
l’orsa madre perse la calma e, fatto appello a tutto il suo coraggio per
difendere la prole, si lanciò all’aperto come un bolide spargendo intorno a se
legni accesi e terrore, minacciando paurosamente i violatori del suo domicilio,
che fecero appena in tempo a schivare l’assalto; e non sarebbe andata liscia
per essi se l’orsa, abbagliata dal fuoco e dall’improvvisa luce solare
aumentata dal candore della neve, non fosse stata improvvisamente attaccata
alle spalle da due robusti cani da pastore, incoraggiati dalla presenza del
padrone e di tutti gli altri, e non fossero ricorse, come dirò in seguito,
delle importantissime circostanze.
L’assalto
dei cani e le grida di terrore emesse da tutti i presenti non sarebbero bastati
a far allontanare il selvatico adulto dalla tana per compiervi la cattura dei
piccoli, per cui, come gli stessi esecutori della temeraria impresa ammisero,
essi debbono la loro salvezza non solo all’intervento dei cani ma
principalmente allo stato di abbattimento in cui l’orsa versava e che solo in
minima parte può attribuirsi alla mancanza del cibo per l’abbondante quantità
di neve che ancora ricopriva la zona, o all’aver ceduto parte del suo vigore al
nutrimento dei figli, ma la vera causa del fisico abbattimento dell’orsa va
ricercata in una qualche malattia che da tempo doveva martoriarla. Inoltre non
va esclusa, anzi va accolta con considerazione, l’ipotesi che il selvatico,
all’improvvisa vista, della gente presso il suo rifugio, se ne sia allontanato
per attirare su di se l’attenzione del nemico, e solo per ultima quella che il
selvatico sia fuggito per mettere in salvo la propria pelle.
Percorso
un centinaio di metri in discesa, affondando nella molle neve primaverile,
l’orsa, sempre inseguita dai cani e da tre uomini, armatisi di tizzoni accesi,
tentò un ritorno ma il caso volle che ciò avvenisse proprio dove una lunga
stipa di frascame, aggrovigliato e ricoperto di neve, aveva formato una specie
di barriera che non poteva essere superata da un essere stremato di forze.
A
questo punto i tre uomini lanciarono i tizzoni contro il selvatico, il che lo
fece desistere dal tentativo di riguadagnare la tana. Nel frattempo uno degli
altri uomini rimasti presso la tana vi si introdusse e, uno per volta, ne
trasse fuori due orsacchiotti che, caso strano, nonostante la loro tenera età,
si ribellavano ferocemente a colpi di zampa, munite di unghioni sviluppati
oltre il normale, e affondando i piccoli aguzzi denti nelle mani del
catturatore tanto da farle sanguinare. La ragione della precoce ribellione e
ritrosia, a mio parere (a quell’età gli orsi sono molto timidi e accolgono il
nemico ritirandosi spaventati con le spalle al sicuro di qualche riparo ma
senza tentare alcuna difesa), va ricercata nello stato bisognevole di
nutrimento in cui versavano o per malattia congenita, poiché fra i tanti casi a
mia conoscenza non ricordo che giovani della specie si siano, come questi,
ribellati. Questa versione trova conferma nel raffronto fatto coi due
congeneri, “Lecce” e “Turchio” d’indole bonaria, e con quella formulata dal
Dott. Vincenzo Fazi, veterinario di Gioia dei Marsi, alle cure del quale gli
orsetti vennero affidati per alcuni giorni, fino a quando cioè non si furono
pressoché ristabiliti. Quegli uomini, a mio parere, sono stati temerari e
inconsiderati poiché fra tutti non avevano altra arma oltre la scure, e debbono
la loro salvezza al precario stato di salute in cui si trovava il selvatico.
Prigionia non
sentita
Appena
appresa la notizia della cattura, la Direzione del Parco mi affidò l’incarico dell’immediato
ritiro dei due giovani prigionieri, che vennero a tenere compagnia a “Lecce” e
“Turchio”, coi quali dividono ancora quotidianamente i pasti, le gioie e i... dolori.
I
quattro cuccioli che, a giudicare dalle condizioni della loro detenzione, frequentemente
e attentamente osservata, sono da ritenersi coetanei, avevano in comune
soltanto il colore del pelame, tanto che a giudicare da esso sembrava
appartenessero alla stessa cucciolata, ma la loro mole, e quindi il loro peso,
differivano del doppio. Difatti, il peso dei primi due, alla data del 30
aprile, era di circa 5 kg ciascuno, mentre i secondi ne pesavano appena 2,500
circa. Il peso odierno (10 dicembre 1955) è: “Turchio” kg 32, “Lecce” 30,
“Villa” e “Marcolana” 25. Ho già reso noto il modo a cui dovetti ricorrere per
l’allevamento dei primi due, che mi dettero delle serie preoccupazioni, ma a
confronto di quello resosi necessario per salvare “Villa” e “Marcolana” può
considerarsi un divertimento e quasi mi meraviglio con me stesso per la felice
riuscita dell’allevamento; la gran parte dei meriti, però debbo condividerla
non solo col Dott. Fazi, ma anche coi miei due mai bastantemente lodati
coadiutori, le guardie Del Principe e Petrella, la cui appassionata e
intelligente opera mi è stata anche in questo caso di prezioso, valido aiuto.
Se i primi due si rimpinzavano per generosa offerta di una cagna prima di una
capra dopo, i secondi resero problematico il provvedere alla loro alimentazione
dato che, non essendomi stato possibile trovare nelle vicinanze una cagna che
potesse allattarli, essi, se avvicinati alle mammelle della capra, trattenuta a
viva forza, distribuivano prodigalmente morsi e graffi tali da ridurre a
brandelli i capezzoli. Inutili furono i tentativi di far prendere loro il latte
con il biberon e simili, quali poppate fatte con zucchero e con miele, ecc.,
sicché si rese necessario ricorrere all’alimentazione forzata somministrando
loro, con cautela, latte munto e addolcito ma facendolo ingozzare per forza.
Per compiere questa operazione era indispensabile l’operazione di due persone
una delle quali, presi con una mano gli arti anteriori del cucciolo, lo
sollevava da terra e con l’altra lo costringeva a tenere la bocca aperta a mò
d’imbuto; l’altra persona con un cucchiaio versava lentamente il latte
addolcito e lievemente riscaldato nella bocca del riluttante. Nel contempo gli
unghioni degli arti posteriori del cucciolo graffiavano energicamente, fino a
farli sanguinare, mani e polsi di colui che, per loro bene, li tratteneva nella
incomoda posizione. Questo lavoro durò una quindicina di giorni, non riuscendo
diversamente a far prendere loro spontaneamente alcun cibo. Durante questo
periodo le nostre mani e i polsi erano ricoperti di ferite. Ricorsi al miele
puro, che le prime volte veniva ricusato, con la necessaria pazienza e costanza
si riuscì a farli abboccare al dolce alimento che veniva servito col cucchiaio
fino a quando cominciarono a leccarlo; poscia si passò alla bacinella, nella
quale si cominciò ad aggiungere un po’ di latte, leggermente allungato con
acqua, che veniva progressivamente aumentato inversamente al miele, che veniva
sempre più ridotto fino a formare la miscela nelle volute dosi. L’aggiunta
dell’acqua si rese necessaria in seguito ad accertamento, dall’esame delle
feci, dell’eccessivo contenuto di grasso nel latte caprino per i giovani prigionieri.
Alcuni giorni dopo, all’ora fissata per i pasti, essi reclamavano il latte, che
ingoiavano con voracità non comune nella specie. Un mese e mezzo circa dopo si
cominciò a somministrare lo stesso alimento che veniva offerto agli altri due,
cioè latte addolcito con intriso qualche biscotto, giungendo a formare,
lentamente, delle vere pappe che consumavano tanto volentieri che per evitare
zuffe bisognò dividere le razioni. Ai biscotti si venne lentamente sostituendo
la mollica del pane e alcune settimane dopo si aggiunse al pasto qualche patata
cotta, indi frutta, verdura e così via aumentando la quantità di questi alimenti
in opposto al latte, che veniva riducendosi fino a sospenderlo, del tutto il
mese di agosto, cioè verso il settimo mese di età. Oggi viene dato loro pane,
polenta, patate cotte, verdura cruda, frutta, ghianda, faggina, ecc., tutti
alimenti che consumano molto volentieri. Finora non si è mai offerto carne e se
qualche volta, a titolo di esperimento, è stata avvicinata, è stata palesemente
ricusata. Il carattere dei quattro giovani ospiti diviene sempre più docile e
quelli che ieri erano i ribelli sono oggi i più affezionati. Essi già
riconoscono a distanza, sia alla voce che al fischio e perfino con l’olfatto,
chi provvede alle loro cure, e lo accolgono con festosi uggiolii. Vivono vita
comune e in buona armonia nella stessa gabbia ma, per evitare liti, al momento
dei pasti è buona norma fare in modo che tutti consumino lo stesso cibo e
ognuno la propria razione; diversamente romperebbero subito i rapporti di buona
amicizia scambiandosi reciproche minacciose ringhiate e se l’uno non cede con
le minacce il cibo dell’altro, passando senz’altri preamboli alle vie di fatto,
avventandosi ferocemente l’uno contro l’altro. I rancori, però, sono di breve
durata e una volta sfogata la momentanea ira riprendono subito dopo a
rincorrersi per gioco facendo piroette e capriole nello spazio loro concesso
dalla gabbia. “Turchio”, l’unico maschio, ormai riconoscibile anche dall’occhio
del profano essendo il più sviluppato di mole, difetta, almeno pel momento, del
benché minimo senso di cavalleria e, al contrario, essendo anche il più forte,
abbonda di despotismo. Se portati all’aperto, tutti studiano la maniera per
meglio dare sfogo ai loro muscoli correndo, saltellando, arrampicandosi per
ogni dove e specialmente alle piante, ma la maggiore attrattiva è costruita dai
cicli e dai motocicli che cavalcano in tutti i sensi da veri acrobati. La
massima distanza che frappongono con l’uomo durante i loro giochi non supera i
40, 50 metri e se il custode, in vena di giocare anch’egli, si nasconde alla
loro vista, viene naso al vento, premurosamente ricercato. I sensi, specie
quello dell’olfatto, sono già abbastanza sviluppati. Con questi orsetti si può
ancora tranquillamente giocare senza timore di essere offesi, e ciò finché ne
hanno voglia, ma una volta stanchi o svogliati conviene rinunciare ai giochi se
si vuole evitare la sbucciatura di qualche mano.
Quando,
in passato, fra i visitatori vi era qualcuno che portava seco qualche leccornia
per farne generosa offerta ai prigionieri, veniva da questi riconosciuto e
festosamente accolto con uggiolii. Essi si indirizzavano, sicuri, verso il
benefattore che distinguevano nettamente dagli altri. Dico in passato poiché,
data l’esagerazione a cui alcuni si spingevano forse per accesso di generosità
o, molto più facilmente, per vederli più lungamente giocare nella contesa della
leccornia, portavano loro biscotti, caramelle, cioccolato, confetti e altri
dolciumi, oggi la Direzione del Parco, onde evitare eventuali disturbi
gastro-intestinali in conseguenza della abbondante indigestione di sostanze
dolci, si è vista costretta ad allontanare ancor più il recinto di filo di
ferro spinato per impedire che il pubblico si avvicini troppo alla gabbia dei
goffi ma simpatici ospiti.
![]() |
Sono con me, alla finestra del mio ufficio, tre dei miei quattro "pupilli" |
![]() |
In funzione di balia |
domenica 12 gennaio 2014
Traduzione articolo del Washington Post
La Panarda: ristorante di Philadelphia
ospita una tradizione secolare che è una maratona, ma non una gara
Di Domenica Marchetti
Philadelphia - Hahri Shin è il primo ad arrivare, a mezzogiorno,
un’ora prima dell’inizio programmato della festa. È venuto attrezzato per
l’occasione, indossando una tuta da ginnastica rosso brillante, una fascia
bianca in testa e portando una bottiglia di Rolaids (ndt: pastiglie
antiacidità).
L’occasione è la terza edizione annuale della Panarda, un banchetto
di nove ore e 40 portate che si tiene a “Le Virtù”, un ristorante di South Philadelphia che si concentra quasi
esclusivamente nel cibo abruzzese, regione dell’Italia Centrale.
In
una domenica innevata di dicembre, 30 commensali che hanno pagato una quota di
250 $ si sono riuniti per gustare l’epico pasto preparato dal capo chef Joe
Cicala e dal suo piccolo staff. Iniziata alle 13.41 con olive fritte ripiene di
brasato di fagiano e finita intorno alle 22.30 con torrone tempestato di
semifreddo al cioccolato e torta con mele sbriciolate in cima.
«È una maratona», dice Shin, programmatore di computer in una
start-up di assistenza sanitaria, mentre gira nel ristorante proprio come le
raffiche di neve all’esterno, «sono un ex Boy Scout. So che si deve sempre
essere preparati».
Per alcuni, come Shin, l’obiettivo era di mangiare tutti i piatti
saggiamente porzionati. Ad altri bastava semplicemente essere seduti in uno dei
due tavoli preparati nella piccola sala da pranzo principale illuminata con
luci soffuse.
«Entrambi i lati della mia famiglia provengono dall’Abruzzo» dice
Nick Strarinieri, un avvocato dalla Contea di Montgomery, Pennsylvania. «Ho
avuto un’emozione quando ho visto seppie in umido nel menù, era un piatto
tipico di mia madre».
La Panarda è effettivamente una maratona, ma non del tipo
mangia-tutto-quello-che-puoi-nel-minor-tempo-possibile, che puoi trovare alle
fiere di contea o nei programmi sul cibo spazzatura, la festa è una tradizione
secolare ricca di significato culturale, religioso e folkloristico. Ha ancora
luogo in alcuni Paesi abruzzesi, soprattutto montani, dove gli inverni possono
essere duri e un pasto celebrativo che richiede giorni di preparazione ha un
fine diverso, per non parlare della comodità.
Storicamente la Panarda era organizzata dai nobili della città per
le persone che avevano lavorato per loro, dice Francis Cratil, che con la
moglie, Catherine Lee, è proprietario de “Le Virtù”. Era una celebrazione
collettiva del raccolto, tenuta in un periodo dell’anno in cui avviene di
solito la macellazione del maiale e quindi le dispense erano piene.
La prima Panarda documentata, nel 1657, ha avuto luogo nel Paese
di Villavallelonga. Secondo la leggenda, una giovane madre di cognome Serafini
lasciò un neonato nella sua culla mentre andava a prendere l’acqua al pozzo.
Quando ritornò, la creatura era tra le fauci di un lupo. Lei pregò Sant’Antonio
Abate, protettore degli allevatori di animali, e il lupo rilasciò il bambino
illeso. La giovane donna promise di tenere un banchetto annuale in onore del
Santo. (ndt: l’articolo contiene un errore: il miracolo della famiglia Serafini
è quello dei diavoli mietitori. Quello del lupo è relativo invece alla “festa a
foc”, della famiglia Bianchi).
Da allora ogni anno la famiglia Serafini tiene la Panarda a
Villavallelonga il 17 gennaio, giorno della festa di Sant’Antonio Abate. Al di
là della celebrazione religiosa e civile, dice Cratil, la Panarda è sempre
stata, per certi versi, un atto di sfida, in linea con la natura dura e
testarda degli abruzzesi.
«Si trattava di esorcizzare le difficoltà endemiche della vita in
questi remoti Paesi d’Abruzzo» dice Cratil, il cui nonno proveniva da
Castiglione Messer Raimondo, in Provincia di Teramo. «Le persone pensavano “finché
abbiamo questa abbondanza, questo cibo nelle dispense, festeggiamo. Non abbiamo
intenzione di mettere tutto da parte. Siamo ottimisti e ci godiamo l’abbondanza”»
È questo l’aspetto che ha affascinato Cratil. Quando “le Virtù” fu
inaugurato, nel 2007, la sua sopravvivenza non era affatto scontata.
Innanzitutto aveva aperto durante un periodo di recessione economica, inoltre
si era impegnato a focalizzarsi sui cibi rustici di una regione che in pochi
conoscono. «Molti pensavano che fossimo degli sciocchi» dice Cratil. Nel 2010
il capo chef, una donna di talento e di temperamento abruzzese, lasciò. Lo stesso
Cratil era malato di cancro.
Alla fine dell’anno le cose iniziarono ad andare meglio. “Le
Virtù” assunse Cicala, un nativo del District of Columbia che aveva lavorato da
Galileo, da Cafe Milano e da Del Posto a New York. Il ristorante ottenne buone recensioni
sulla stampa di Philadelphia. «Abbiamo voluto celebrare la nostra stessa
sopravvivenza» dice Cratil, che era in ospedale durante la prima Panarda ma si
riprese.
L’evento è ormai famoso e fa rapidamente il tutto esaurito una
volta annunciato - di solito in meno di un’ora. Nonostante il prezzo alto, dice
Cratil, il ristorante non trae profitto dalla Panarda. «Non guadagnamo un
centesimo. La teniamo ogni anno come impegno verso la nostra missione».
Cicala, l’aiuto chef Brandon Howard e la pasticciera Angela
Ranalli si preparano per quattro giorni per essere pronti all’evento di
quest’anno. Il menù è stato fatto dopo una Panarda tenuta nel 1994 a Villa
Santa Maria (CH) presso la rinomata scuola di cucina che ha formato alcuni dei
migliori chef italiani. È stata organizzata in 10 “servizii”, per la maggior
parte costituiti da quattro o cinque portate, con pause nel mezzo. L’evento
segue un certo ritmo, con un andamento di pietanze che diventano gradualmente
più sostanziose, poi più leggere, poi di nuovo sostanziose.
Sono stati presentati alcuni ingredienti tipici abruzzesi - frutti
di mare per rappresentare la costa adriatica, lenticchie e fagioli coltivati
nell’entroterra, un’ampia scelta di pasta, carni di maiale e agnello e formaggi
di latte di pecora - tutto accompagnato con una selezione di vini della Cantina
Frentana, un produttore abruzzese.
Tra le tante portate i piatti clou sono stati il brodetto di
molluschi, un’abbondante pasta e fagioli, salumi fatti in casa e un ricco
stufato di tenero agnello (agnello brasato) servito verso la fine del pasto che
un commensale ha descritto come una “ninna nanna”. Ma la star della serata è
stato il timballo di crespelle di Cicala, un enorme cupola di crepes salate a
strati cotta al forno, con formaggio, polpettine, tenera carne di maiale e
salsa.
Mentre la neve si accumulava all’esterno e il pomeriggio diventava
sera, i commensali facevano tintinnare i bicchieri con un brindisi. Alcuni si
alzavano per sgranchirsi le gambe o per controllare il risultato della partita
Eagles-Lions, altri si avventuravano fuori a lanciarsi palle di neve tra una
portata e l’altra.
Un gruppo di quattro persone è giunto all’incirca intorno
all’undicesima portata (cotechino bollito con lenticchie) e è messo a mangiare
in fretta per recuperare. Tra di loro c’era Daniel Chadwick, un gestore di un
ristorante di Philadelphia, e suo fratello Jay, capocuoco all’Alba Restaurant.
Erano rimasti bloccati sulla Interstate 76 ed avevano 10 ore e mezzo di ritardo,
senza scoraggiarsi. «Qui è dove mi sono sposato», dice Chadwick, in parte
abruzzese, «siamo rimasti coinvolti in due incidenti lungo la strada, ma non avevamo
intenzione di perderci l’evento».
Con il pasto che volgeva al termine, gli irriducibili e i loro
compagni di tavola volevano finire gli ultimi mozzichi di rosetta fritta e
torta di mele. I brindisi finali erano stati scambiati e persone che si erano
sedute come estranei o conoscenti si alzavano stringendosi la mano o
abbracciandosi come amici.
«Il cameratismo con gli altri del mio tavolo ci ha aiutato ad
arrivare fino alla fine» dice Shin. «La neve che cadeva ha reso l’esperienza
ancora più speciale. È stata una notte che non dimenticherò mai».
Per avere informazioni
sulla Panarda del prossimo anno, visitare www.levirtu.com o chiamare il
215-271-5626. Marchetti è autrice di diversi libri di cucina: l’ultimo è “The
Glorious Vegetables of Italy” (Chronicle Books, 2013).
Traduzione e adattamento: Achille Ferrari
Supervisione: Anselmo Lippa
Iscriviti a:
Post (Atom)