mercoledì 22 gennaio 2014

2070 battute: Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo

Racconto estratto dal libro di Leucio Coccia “Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo” – Pescasseroli, 1980. Il testo consiste in una raccolta di racconti pubblicati negli anni '50-'60 sulla famosissima rivista venatoria Diana, con la quale l'autore collaborava.

Il libro è disponibile al prestito e alla consultazione presso la Biblioteca Comunale.

Una seconda cattura di orsacchiotti

La cattura

Erano le 11 circa del 26 aprile scorso allorquando certo Antonio Bianchi da Villavallelonga, che nel bosco “Aceretta” trascinava a valle sulla neve un tronco di faggio, intravide, a non più di venti passi da lui, qualche cosa fra le piante che scompariva rapidamente dietro una bassa roccia. Spinto dalla curiosità, volse i suoi passi alla volta del punto dell’apparizione nella speranza di poter accertare qualcosa mediante la lettura delle eventuali impronte lasciate sulla neve. Giunto presso la roccia scoprì che sotto di essa si apriva un buco angusto e buio il cui fondo scendeva in senso leggermente obliquo, e che sulla neve vicina vi erano soltanto delle ormi somiglianti a quelle di piedini umani di neonato.

A tal vista il Bianchi chiamò alcuni suoi colleghi che si trovavano nei paraggi e, fatto loro osservare quanto da lui scoperto, con l’ausilio di essi, in numero di quattro, credette di potersi dare subito all’opera di cattura. Ma vi dovette, in un primo momento, rinunciare dato che, mentre infilava carponi l’angusto pertugio, l’incauto, e più che tale incosciente, ne venne bruscamente respinto da un minaccioso e più che mai cavernoso ringhio da fare arricciare i capelli a tutti i presenti e farli sbaragliare; segno eloquente che la caverna era abitata da una famiglia di orsi, madre e figli, poiché il maschio è completamente disinteressato all’educazione della prole.

Visto, però, che nessun essere vivente venne fuori dalla tana, la squadra dei catturatori, riavutasi dallo spavento e riacquistato il necessario sangue freddo, per provocare l’uscita della madre dal covile, ricorse al mezzo più sbrigativo e a portata di mano: adunò del frascame presso la caverna, vi appiccò il fuoco e, una volta bene acceso, ve lo spinse dentro. A questo punto l’orsa madre perse la calma e, fatto appello a tutto il suo coraggio per difendere la prole, si lanciò all’aperto come un bolide spargendo intorno a se legni accesi e terrore, minacciando paurosamente i violatori del suo domicilio, che fecero appena in tempo a schivare l’assalto; e non sarebbe andata liscia per essi se l’orsa, abbagliata dal fuoco e dall’improvvisa luce solare aumentata dal candore della neve, non fosse stata improvvisamente attaccata alle spalle da due robusti cani da pastore, incoraggiati dalla presenza del padrone e di tutti gli altri, e non fossero ricorse, come dirò in seguito, delle importantissime circostanze.

L’assalto dei cani e le grida di terrore emesse da tutti i presenti non sarebbero bastati a far allontanare il selvatico adulto dalla tana per compiervi la cattura dei piccoli, per cui, come gli stessi esecutori della temeraria impresa ammisero, essi debbono la loro salvezza non solo all’intervento dei cani ma principalmente allo stato di abbattimento in cui l’orsa versava e che solo in minima parte può attribuirsi alla mancanza del cibo per l’abbondante quantità di neve che ancora ricopriva la zona, o all’aver ceduto parte del suo vigore al nutrimento dei figli, ma la vera causa del fisico abbattimento dell’orsa va ricercata in una qualche malattia che da tempo doveva martoriarla. Inoltre non va esclusa, anzi va accolta con considerazione, l’ipotesi che il selvatico, all’improvvisa vista, della gente presso il suo rifugio, se ne sia allontanato per attirare su di se l’attenzione del nemico, e solo per ultima quella che il selvatico sia fuggito per mettere in salvo la propria pelle.

Percorso un centinaio di metri in discesa, affondando nella molle neve primaverile, l’orsa, sempre inseguita dai cani e da tre uomini, armatisi di tizzoni accesi, tentò un ritorno ma il caso volle che ciò avvenisse proprio dove una lunga stipa di frascame, aggrovigliato e ricoperto di neve, aveva formato una specie di barriera che non poteva essere superata da un essere stremato di forze.

A questo punto i tre uomini lanciarono i tizzoni contro il selvatico, il che lo fece desistere dal tentativo di riguadagnare la tana. Nel frattempo uno degli altri uomini rimasti presso la tana vi si introdusse e, uno per volta, ne trasse fuori due orsacchiotti che, caso strano, nonostante la loro tenera età, si ribellavano ferocemente a colpi di zampa, munite di unghioni sviluppati oltre il normale, e affondando i piccoli aguzzi denti nelle mani del catturatore tanto da farle sanguinare. La ragione della precoce ribellione e ritrosia, a mio parere (a quell’età gli orsi sono molto timidi e accolgono il nemico ritirandosi spaventati con le spalle al sicuro di qualche riparo ma senza tentare alcuna difesa), va ricercata nello stato bisognevole di nutrimento in cui versavano o per malattia congenita, poiché fra i tanti casi a mia conoscenza non ricordo che giovani della specie si siano, come questi, ribellati. Questa versione trova conferma nel raffronto fatto coi due congeneri, “Lecce” e “Turchio” d’indole bonaria, e con quella formulata dal Dott. Vincenzo Fazi, veterinario di Gioia dei Marsi, alle cure del quale gli orsetti vennero affidati per alcuni giorni, fino a quando cioè non si furono pressoché ristabiliti. Quegli uomini, a mio parere, sono stati temerari e inconsiderati poiché fra tutti non avevano altra arma oltre la scure, e debbono la loro salvezza al precario stato di salute in cui si trovava il selvatico.

Prigionia non sentita

Appena appresa la notizia della cattura, la Direzione del Parco mi affidò l’incarico dell’immediato ritiro dei due giovani prigionieri, che vennero a tenere compagnia a “Lecce” e “Turchio”, coi quali dividono ancora quotidianamente i pasti, le gioie e i... dolori.

I quattro cuccioli che, a giudicare dalle condizioni della loro detenzione, frequentemente e attentamente osservata, sono da ritenersi coetanei, avevano in comune soltanto il colore del pelame, tanto che a giudicare da esso sembrava appartenessero alla stessa cucciolata, ma la loro mole, e quindi il loro peso, differivano del doppio. Difatti, il peso dei primi due, alla data del 30 aprile, era di circa 5 kg ciascuno, mentre i secondi ne pesavano appena 2,500 circa. Il peso odierno (10 dicembre 1955) è: “Turchio” kg 32, “Lecce” 30, “Villa” e “Marcolana” 25. Ho già reso noto il modo a cui dovetti ricorrere per l’allevamento dei primi due, che mi dettero delle serie preoccupazioni, ma a confronto di quello resosi necessario per salvare “Villa” e “Marcolana” può considerarsi un divertimento e quasi mi meraviglio con me stesso per la felice riuscita dell’allevamento; la gran parte dei meriti, però debbo condividerla non solo col Dott. Fazi, ma anche coi miei due mai bastantemente lodati coadiutori, le guardie Del Principe e Petrella, la cui appassionata e intelligente opera mi è stata anche in questo caso di prezioso, valido aiuto. Se i primi due si rimpinzavano per generosa offerta di una cagna prima di una capra dopo, i secondi resero problematico il provvedere alla loro alimentazione dato che, non essendomi stato possibile trovare nelle vicinanze una cagna che potesse allattarli, essi, se avvicinati alle mammelle della capra, trattenuta a viva forza, distribuivano prodigalmente morsi e graffi tali da ridurre a brandelli i capezzoli. Inutili furono i tentativi di far prendere loro il latte con il biberon e simili, quali poppate fatte con zucchero e con miele, ecc., sicché si rese necessario ricorrere all’alimentazione forzata somministrando loro, con cautela, latte munto e addolcito ma facendolo ingozzare per forza. Per compiere questa operazione era indispensabile l’operazione di due persone una delle quali, presi con una mano gli arti anteriori del cucciolo, lo sollevava da terra e con l’altra lo costringeva a tenere la bocca aperta a mò d’imbuto; l’altra persona con un cucchiaio versava lentamente il latte addolcito e lievemente riscaldato nella bocca del riluttante. Nel contempo gli unghioni degli arti posteriori del cucciolo graffiavano energicamente, fino a farli sanguinare, mani e polsi di colui che, per loro bene, li tratteneva nella incomoda posizione. Questo lavoro durò una quindicina di giorni, non riuscendo diversamente a far prendere loro spontaneamente alcun cibo. Durante questo periodo le nostre mani e i polsi erano ricoperti di ferite. Ricorsi al miele puro, che le prime volte veniva ricusato, con la necessaria pazienza e costanza si riuscì a farli abboccare al dolce alimento che veniva servito col cucchiaio fino a quando cominciarono a leccarlo; poscia si passò alla bacinella, nella quale si cominciò ad aggiungere un po’ di latte, leggermente allungato con acqua, che veniva progressivamente aumentato inversamente al miele, che veniva sempre più ridotto fino a formare la miscela nelle volute dosi. L’aggiunta dell’acqua si rese necessaria in seguito ad accertamento, dall’esame delle feci, dell’eccessivo contenuto di grasso nel latte caprino per i giovani prigionieri. Alcuni giorni dopo, all’ora fissata per i pasti, essi reclamavano il latte, che ingoiavano con voracità non comune nella specie. Un mese e mezzo circa dopo si cominciò a somministrare lo stesso alimento che veniva offerto agli altri due, cioè latte addolcito con intriso qualche biscotto, giungendo a formare, lentamente, delle vere pappe che consumavano tanto volentieri che per evitare zuffe bisognò dividere le razioni. Ai biscotti si venne lentamente sostituendo la mollica del pane e alcune settimane dopo si aggiunse al pasto qualche patata cotta, indi frutta, verdura e così via aumentando la quantità di questi alimenti in opposto al latte, che veniva riducendosi fino a sospenderlo, del tutto il mese di agosto, cioè verso il settimo mese di età. Oggi viene dato loro pane, polenta, patate cotte, verdura cruda, frutta, ghianda, faggina, ecc., tutti alimenti che consumano molto volentieri. Finora non si è mai offerto carne e se qualche volta, a titolo di esperimento, è stata avvicinata, è stata palesemente ricusata. Il carattere dei quattro giovani ospiti diviene sempre più docile e quelli che ieri erano i ribelli sono oggi i più affezionati. Essi già riconoscono a distanza, sia alla voce che al fischio e perfino con l’olfatto, chi provvede alle loro cure, e lo accolgono con festosi uggiolii. Vivono vita comune e in buona armonia nella stessa gabbia ma, per evitare liti, al momento dei pasti è buona norma fare in modo che tutti consumino lo stesso cibo e ognuno la propria razione; diversamente romperebbero subito i rapporti di buona amicizia scambiandosi reciproche minacciose ringhiate e se l’uno non cede con le minacce il cibo dell’altro, passando senz’altri preamboli alle vie di fatto, avventandosi ferocemente l’uno contro l’altro. I rancori, però, sono di breve durata e una volta sfogata la momentanea ira riprendono subito dopo a rincorrersi per gioco facendo piroette e capriole nello spazio loro concesso dalla gabbia. “Turchio”, l’unico maschio, ormai riconoscibile anche dall’occhio del profano essendo il più sviluppato di mole, difetta, almeno pel momento, del benché minimo senso di cavalleria e, al contrario, essendo anche il più forte, abbonda di despotismo. Se portati all’aperto, tutti studiano la maniera per meglio dare sfogo ai loro muscoli correndo, saltellando, arrampicandosi per ogni dove e specialmente alle piante, ma la maggiore attrattiva è costruita dai cicli e dai motocicli che cavalcano in tutti i sensi da veri acrobati. La massima distanza che frappongono con l’uomo durante i loro giochi non supera i 40, 50 metri e se il custode, in vena di giocare anch’egli, si nasconde alla loro vista, viene naso al vento, premurosamente ricercato. I sensi, specie quello dell’olfatto, sono già abbastanza sviluppati. Con questi orsetti si può ancora tranquillamente giocare senza timore di essere offesi, e ciò finché ne hanno voglia, ma una volta stanchi o svogliati conviene rinunciare ai giochi se si vuole evitare la sbucciatura di qualche mano.

Quando, in passato, fra i visitatori vi era qualcuno che portava seco qualche leccornia per farne generosa offerta ai prigionieri, veniva da questi riconosciuto e festosamente accolto con uggiolii. Essi si indirizzavano, sicuri, verso il benefattore che distinguevano nettamente dagli altri. Dico in passato poiché, data l’esagerazione a cui alcuni si spingevano forse per accesso di generosità o, molto più facilmente, per vederli più lungamente giocare nella contesa della leccornia, portavano loro biscotti, caramelle, cioccolato, confetti e altri dolciumi, oggi la Direzione del Parco, onde evitare eventuali disturbi gastro-intestinali in conseguenza della abbondante indigestione di sostanze dolci, si è vista costretta ad allontanare ancor più il recinto di filo di ferro spinato per impedire che il pubblico si avvicini troppo alla gabbia dei goffi ma simpatici ospiti.
Sono con me, alla finestra del mio ufficio, tre dei miei quattro "pupilli"
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